…e non dite mai più “Tu non puoi capire”

Mi presento. Mi chiamo Manuela e, dando un po’ i numeri, la mia vita si può più o meno, sintetizzare così:
-42 anni
-1 marito
-1 ex-marito
-1 cane
-1 mamma
-1 fratello
-10 amici indispensabili
-0 figli
Già zero figli.
“Oooooohhhhh” stupore in sala, bocche e occhi spalancati, la suspence è palpabile “chissà cosa avrà da dirci ora”.
Niente. Non ho figli perché è andata così.
Ho vissuto due vite, una per fortuna la sto ancora vivendo adesso, e spero che sia lunghissima e, in tutte e due le mie vite, gli eventi hanno preso una spiega tale che la voce “figli” nella mia agenda l’ho dovuta spostare tante di quelle volte per continui cambiamenti di programma che, a furia di scrivere, cancellare e riscrivere, dopo un po’ ho smesso di scrivere questa voce a penna (che brutte quelle righe sulla pagina bianca), per una più agevole matita e gomma, e poi dopo la matita, mi sono stufata e ho proprio deciso di non scriverla più.
Senza drammi e tragedie.
Durante il mio primo matrimonio, ero giovane, idealista e romantica, sognavo la famiglia cuore: due cuori, una villetta (la capanna era troppo low profile), un cane e due/tre figli. Le cose sono andate leggermente in maniera diversa: divorzio, villetta venduta, cane in affido congiunto con il mio ex-marito, e mentre tutti scodellavano figli che una padella di pop-corn scoppiettanti sul fuoco fatica a tenere il ritmo delle nascite, io mi leccavo le ferite e, con le scarse energie che avevo e la ancor più scarsa pazienza di cui disponevo (ne avevano abusato un po tutti in quel periodo), mi mettevo all’opera per ricostruirmi una vita e, soprattutto, una nuova identità che mi calzasse un po’ meglio di quella di mogliettina premurosa e mamma dell’anno.
Capirete quindi che, garantirmi una discendenza era l’ultimo dopo l’ultimo dei miei pensieri.
Ho cambiato casa, taglio di capelli, mi sono fatta qualche tatuaggio nuovo, ho sfruttato qualche buona occasione lavorativa che il mio status di “single di rimbalzo” mi ha servito su un piatto d’argento, anche se una deliziosa collega, mi fece notare che, quell’occasione mi era stata offerta proprio perché, cito testualmente “tu sei sola e non hai nessuno che ti aspetta a casa” -deliziosa personcina, vero?E già, lo penso anche io. Ovviamente anche in questo periodo la voce figli era oggettivamente fuori luogo.
E poi con viva e vibrante soddisfazione (l’ho già sentita….) mi sono buttata dentro alla mia nuova vita. E ho incontrato lui, l’amore (vero) della mia vita, anche lui amante dei viaggi, affamato di nuove esperienze, fecondissimo di sogni e ambizioni e curiosità. Abbiamo girato in largo e in lungo il mondo reale e quello dei sogni, abbiamo seminato progetti, dobbiamo scrivere libri e dipingere quadri, abbiamo una lista delle cose da fare lunga qualche metro, e cavolo, non ce ne vogliate a male e non considerateci mostri egoisti ma la voce figli non sappiamo proprio dove scriverla: prima o dopo il giro d’Italia in automobile? o quando torniamo dal nostro viaggio sulla linea dell’Equatore? e poi vogliamo andare a Santiago de Compostela a piedi, e una gravidanza o un bimbo piccolo male si conciliano con ottocento chilometri a piedi con uno zaino in spalla…
E così travolti da questo vortice edonistico, la nostra spinta alla genitorialità si è spenta, anche grazie al panorama sconfortante che fa da scenario al nostro presente. E le primavere alle mie spalle sono diventate quarantadue.
Facciamo un po’ due conti, caro il mio bel figliolo. Se nascessi quest’anno io e tuo padre torneremmo a essere una coppia libera fra…facciamo venticinque anni? Molto bene, io avrei sessantasette anni: una donna anziana, i miei sogni e le mie ossa avrebbero due dita di ruggine sopra, e così, tu, invece di goderti la tua gioventù di giovane aperto e cosmopolita, come avresti tutto il diritto di fare, ti ritroveresti a fare da badante ai tuoi anziani genitori. Riflettici: una galera per tutti, ti pare? Quindi, amiamoci tanto ora, amiamoci a tal punto da lasciarci tutti liberi di correre incontro alla vita che desideriamo; tu hai diritto a una coppia di genitori giovani, brillanti e pieni di energie, e noi valigie grandi e passaporti pieni di timbri. Affare fatto.
Ora resta una cosa da fare. La più complicata.
Ora devo persuadere tutte quelle donne “figli-munite” che una donna può essere paurosamente felice e realizzata anche se non ha un passeggino da spingere. Quelle donne che, quando si immaginano una donna senza figli, la vedono piangente e “a metà”; quelle che “una donna si può sentire realizzata e completa SOLO con la maternità” e, quando parlano delle loro fatiche con una donna che non ha figli, spesso lasciano le frasi a metà e poi con un sospiro, tirano fuori il jolly: tu non puoi capire, tu non hai figli.
Mi va il sangue alla testa. Ma cosa vuol dire “tu non puoi capire”? Non sono mica scema, io posso capire, immaginare, essere empatica, condividere. E gli scenari si moltiplicano.
Potrei anche dire “infatti a me non me ne può fregar di meno delle tue notti insonni e delle tue titaniche fatiche” oppure sei tu, mamma, che non puoi capire che la donna che hai davanti, ha impiegato tante di quelle energie a dare il colpo di reni che l’ha rimessa in piedi, che ora di fatiche non ne vuole più sentire parlare, oppure la donna che hai davanti sta soffrendo le pene dell’inferno perché pur di diventare mamma, venderebbe l’anima sua e quella di suo marito al Diavolo o, molto più verosimilmente, ad un bravo ginecologo che realizzi il suo desiderio. Oppure non è che non può capire, capisce benissimo, ma non può fare molto altro, se non alzare le spalle e dire “sì è vero, non capisco”.
Quindi prendete il vostro “tu non puoi capire” e mettetevelo in tasca e provate poi a tirarlo fuori quando, davanti ad un diabetico azzannerete una succulenta fetta di torta, o davanti ad una persona paralizzata deciderete di elencare i piaceri di una bella e corroborante corsa al parco, o davanti ad un cieco aprirete l’album delle foto della vostra ultima meravigliosa vacanza, o davanti ad una persona presa da mille cose da fare vi ignorerà completamente, e aspettate le reazioni. Potrebbe essere illuminante.
E non rimaneteci troppo male quando troverete che vi risponderà per le rime e, davanti al vostro laconico “tu non puoi capire” vi risponderà con un sereno e sorridente “hai voluto la bicicletta? Mo’ti tocca pedalare per circa vent’anni se sei fortunata” oppure, se lo beccate in una giornata no, potrebbe andarvi peggio, e sentirvi dire “anche tu non puoi capire, io non avrò figli, ma tu non hai neuroni”: che è peggio.

Ti stavo aspettando, autunno!

Proprio ieri mattina, andando in bicicletta, come ho fatto le prime due pedalate, l’ho sentita nitida e chiara: la carezza dell’autunno. Mi volete far credere che non sapete cosa sia la carezza dell’autunno? Ve lo spiego io, ma a un certo punto capirete che l’avete sentita anche voi moltissime volte.

È l’arietta fresca che vi sveglia la mattina quando mettete il naso fuori di casa, ma non è ancora quello schiaffone micidiale del generale inverno, che quasi quasi vi confonde le idee da tanto è secco e ben assestato. No, l’autunno vi fa un buffetto sulla guancia, come se vi dicesse “vai che è ora, poi fai tardi”, è nella pelle d’oca tenerina di chi ancora non vuole rinunciare alle maniche corte, ma domani lo vedrete con la giacchetta leggera. È nelle guance rosse quando arrivo in centro, nelle mani fredde e, mentre fino a qualche giorno fa, quando mi fermavo mi assaliva un caldo fastidioso e cominciavo a sudare che manco avessi fatto il Giro d’Italia, ora no, ora mi fermo e assaporo in quell’istante in cui l’aria è immobile il piacere confortante del sole che ti scalda un po’ il viso.

È la stagione che rende giustizia a noi creature crepuscolari che rifuggiamo da sempre il solleone, l’abbronzatura a tutti i costi e le domeniche in spiaggia. A noi che il mare preferiamo contemplarlo seduti su una panchina, magari quando è in tempesta, magari con un quaderno e una penna in mano, per provare a catturare i pensieri che, cullati da quelle onde, piano piano affiorano nella mente. È la liberazione dal non doversi più giustificare del perché non te ne frega un accidente di passare le giornate in spiaggia, perché in realtà la consideri una totale perdita di tempo, e l’abbronzatura a tutti i costi è una schiavitù a cui non mi sono mai voluta assoggettare.

Amo i colori di cui si veste la Natura in autunno, e il cielo….avete notato come è mutevole il cielo in autunno? Non ce la fa proprio a rimanere azzurro, macchè…nuvole bianche lo attraversano da ogni dove, poi torna azzurro, poi cambia umore e si veste di grigio, e poi al tramonto si accende di colori infuocati, costringendo anche le nuvole a vestirsi come sarà lui a decidere. Le giornate si accorciano, il sole è ancora dolcemente caldo, ma l’aria fresca ne stempera il calore quando eccessivo, è tutto in perfetto equilibrio in autunno, è una stagione armoniosa, come la primavera, ma è più saggio: ha lasciato all’estate tutte le sue intemperanze, per godersi un più lento e gentile trascorrere delle giornate. È così mentre in estate tutto sembra proteso a un divertimento esagerato, l’autunno sembra inventato apposta per piacevoli e serene chiacchierate davanti ad un bicchiere di un buon vino rosso.

E poi, piano piano e dolcemente ci accompagna fra le braccia dell’inverno, stagione fredda e qualche volta un poco ostile, ma che porta con sè tutte le promesse che si avvereranno con l’arrivo della primavera, sorella gioiosa delle altre stagioni. Perché tutto è un cerchio, il tempo, le stagioni, tutto si rincorre perpetuamente, gioie e dolori si susseguono e quando raggiungono quell’equilibrio perfetto che genera armonia, l’animo attento la può percepire, e il cuore in pace su questo incedere dolce e costante, può proseguire la sua danza.

Pane, farina, fatica e ricordi

“mi mandi un po’ la Manuela che vediamo cosa sa fare”.

Tutto ebbe inizio così, la prima esperienza lavorativa della mia vita, non avevo ancora compiuto quindici anni, promossa a pieni voti con largo anticipo, ma non ero una secchiona, ci tengo a precisarlo: ottimizzavo le mie performances studentesche, facendo in modo di avere tutte le medie fatte, finite e pronte per il 31 maggio, così poi potevo andare a scuola come e quando ne avevo voglia. Era il tacito accordo con i miei, potevo smettere di andare a scuola a fine maggio, però era scontato che fossi promossa, e pure con una buona media. L’essere rimandati, o peggio ancora, la bocciatura, non erano risultati nemmeno da considerare, così era e stop, fine discussione.

L’estate del 1987 fu così l’estate che sancì a pieno titolo il mio ingresso nel mondo del lavoro, anche se solo nei mesi estivi. Mi ritrovai a fare l’aiuto dell’aiuto, dell’aiuto commessa nel panificio di paese, ai tempi ridente località turistica del Tigullio (ma veramente non così per dire), che d’estate moltiplicava a livello esponenziale i suoi abitanti e quindi, per chi voleva, c’era lavoro da vendere, ed era normale per tutti i miei coetanei avere un lavoro estivo.

Il proprietario del panificio era un signore gentilissimo ma di pochissime parole, credo, anzi ne sono certa, che il lavoro notturno ne abbia per sempre modificato il carattere, rendendolo concreto e solido, e di certo non una di quelle persone che si perdono in inutili giri di parole; d’estate entrava in laboratorio alle 10 di sera e lavorava ininterrottamente fino alle 13 dl giorno dopo. Aveva mani grandissime deformate da gesti ripetuti chissà quante volte, erano mani quasi insensibili al calore del forno e delle teglie roventi, ed erano impolverate di farina sempre, anche quando non lavoravano. Erano mani oneste.

E così, perché così andavano le cose, mi ritrovai un lunedì pomeriggio, con un grembiule bianco legato in vita, i capelli raccolti in una coda, dietro il bancone di un panificio, senza sapere che orari avrei fatto, che stipendio avrei preso, che mansioni avrei avuto. Niente, ma tanta era la fiducia che i miei riponevano in Giancarlo (si chiamava così) che non sentirono affatto l’esigenza di chiedere dettagli, che magari, era anche un po’ presuntuoso come atteggiamento, e poi mio fratello lavorava già da qualche stagione nel laboratorio, e questo come garanzia era più che sufficiente. Quanto a me, ero così timida e in soggezione che non avrei osato aprire bocca nemmeno per chiedere aiuto se il negozio stesse andando in fiamme; ai tempi diventato rossa come un pomodoro fino alle orecchie per un nonnulla, mi cominciavano a sudare le mani e la voce diventava tremula e appena percettibile. Avevo la pelle tenera tenera e non immaginavo minimamente i cambiamenti che avrei fato durante i mesi estivi grazie a Giancarlo.

Io non sapevo nemmeno distinguere un panino all’olio da un panino all’acqua, non avevo idea delle proporzioni per fare i vari pesi e la gente mi faceva paura e, cosa non trascurabile, facevo orari veramente tosti: mattina e pomeriggio tutti i santi giorni tranne la domenica pomeriggio, che era libera. Giancarlo mi stuzzicava in tutti i modi, mi prendeva in giro, mi faceva scherzi di ogni tipo e, quando parlavo, faceva finta di non sentire, in modo da obbligarmi ad alzare la voce, vincendo così a poco a poco, la mia timidezza. Mi costringeva ad andare più veloce, facendomi correre a destra e a manca con ogni scusa possibile  e quelle mattine che arrivavo in negozio particolarmente assonnata, per regalarmi un dolce risveglio, diciamo così, mi tirava le teglie vuote della focaccia fra i piedi, facendomi si svegliare di colpo, ma anche provocandomi dei sussulti indimenticabili. Ci voleva veramente bene a me e  a mio fratello e ci trattava in tutto e per tutto, alla stregua dei suoi figli. Mi ricordo molto nitidamente il giorno in cui mi pagò per il primo mese di lavoro: mi chiamò nel laboratorio e mi fece avvicinare al banco di lavoro e ci appoggiò un foglio che poi scoprì essere la mia prima busta paga, tirò fuori dalla tasca delle banconote e cominciò a contare…cavoli non si fermava mai, e quando la somma delle banconote messe sul bancone coincise con quella indicata sulla busta paga, invece che fermarsi, mi guardò negli occhi e continuò a contare “perché sei stata brava e te lo meriti” e mi fece una carezza sulla guancia con quelle mani gigantesche che ora sapevo essere capaci di dolcezze disarmanti. Guadagnai così il mio primo milione e mezzo di lire, una cifra enorme per l’epoca e anche una divisa nuova di zecca. Avevo superato l’esame, e ora cominciavo pure a rispondere a tono quando mi faceva delle battute, non arrossivo quasi più, e ridevo di gusto quando mi faceva qualche scherzo.

Arrivavo a fine agosto bianca come un cadavere e stanca morta, giusto il tempo per riposarmi un po’ e si tornava a scuola, ma con la mia stupenda cartella rossa della Naj-Oleari, con tutto coordinato dal diario, all’astuccio, ai quaderni…persino la carta con cui fasciavo i libri era perfettamente coordinata. E nessuno a casa osava dire niente, erano soldi miei, guadagnati con fatica e quindi potevo spenderli come meglio volevo. Che soddisfazione.

Così sono passate le estati degli anni delle mie superiori, da aiuto dell’aiuto dell’aiuto commessa, mi sono ritrovata a essere la commessa storica, conoscevo tutti i clienti e le loro abitudini, scherzavo con tutti e ho sempre avuto una parola per ognuno, Giancarlo ormai non faceva più paura, anzi, era il mio “padre lavorativo” e il negozio con il suo laboratorio lo sentivo a tutti gli effetti come la mia seconda casa. Ogni anno a stagione finita giuravo e spergiuravo che sarebbe stata l’ultima, che io di farmi un mazzo così non ne avevo più nessuna voglia, che non avevo ammazzato nessuno per meritarmi una fatica simile, ma poi, vai a sapere perché, l’estate successiva mi veniva spontaneo andare a chiedergli quando dovevo cominciare, lui mi pizzicava la guancia e mi diceva di andare quando “mi sembrava giusto andare” che tanto ormai sapevo come funzionava. Proprio come una famiglia.

E oggi Giancarlo se n’è andato, un altro pezzetto del mio passato si è trasformato in memoria. Gian vivrà nel mio ricordo come la persona che mi ha insegnato la fatica del lavoro, ma anche la soddisfazione che da esso ne deriva, mi ha insegnato lo spirito di sacrificio, ma anche la serenità che si prova dopo una giornata di lavoro, mi ha fatto vincere la mia timidezza quasi patologica e sono assolutamente certa del fatto che, se oggi sono così come sono, una bella fetta di merito va anche a lui, che ventisette anni fa, ha visto qualcosa di buono dietro ad una ragazzina a cui faceva paura praticamente tutto e che quindi si meritava un pizzico di fiducia.

Mi mancherà, e mi mancherà tanto. Lo voglio ricordare così: alle 13, quando il negozio chiudeva lui salutava tutti, si metteva il grembiule sporco sulla spalla, accendeva una sigaretta, metteva due panini dentro ad un sacchetto e si incamminava verso casa con il passo un po’ strascicato dalla stanchezza. Guardandolo così, con le spalle un po’ curve si intuiva tutta la fatica di un mestiere tanto nobile come quello del fornaio. Un lavoro fatto di orari strambi, di notti che diventano giorni e giorni che si spendono dormendo. Le stelle hanno vegliato sul suo lavoro per anni, ora è lui che da più vicino le osserverà, riposandosi.

“Storia di G.” a proposito di SLA

Parliamo un po’ di SLA, vi va?
No, e lo capisco: a nessuno piace parlare di una malattia così brutta e crudele (ammesso e non concesso che esistano malattie belle e gentili….cosa che non credo). Dai, va bene, niente SLA. E allora vi racconto una storia.
La storia di G.
G ha, anno più anno meno, 47 anni, ha una bella casa, una moglie carina e simpatica, un buon lavoro e due figli, un maschio e una femmina. Ha un buon tenore di vita e le preoccupazioni che più o meno abbiamo tutti.
G da un po’ di tempo a questa parte accusa degli strani fastidi ad una gamba, capita che la gamba improvvisamente ceda e lo faccia cadere a terra. Fa alcuni controlli, ma distrattamente, senza pensare ad un problema reale, sono controlli di routine, i soliti esami, sarà solo un po’ stanco, si promette di fare una bella vacanza con la sua famiglia, la prenoterà appena ritira i referti, che tanto si sa, vanno sempre bene. G si sente invincibile e al sicuro, come ognuno di noi.
E invece eccola la doccia gelata che mischia le carte in tavola: signor G, lei è malato di SLA, le sue improvvise cadute sono il chiaro segnale che i primi motoneuroni si sono danneggiati irreversibilmente. E da questo momento in poi non ci sono Santi che tengano, non si torna indietro. Aspettativa di vita dai 3 ai 5 anni, anni in cui motoneurone dopo motoneurone il corpo si ferma, ogni muscolo piano piano si addormenta, rendendo impossibili anche le cose più banali. Il cervello, beh no, il cervello no, lui non c’entra niente con i motoneuroni, lui non si ferma, rimane bello arzillo che è un piacere: ma rimane prigioniero di un corpo immobile.
Benvenuti, questa è la SLA. Gradite forse un cubetto di ghiaccio da mettere nel vostro cocktail di benvenuto? A G gliene sono piovuti in testa una tonnellata quando gli hanno detto come stavano le cose, quindi sono certa che ve ne regalerà volentieri un paio da mettere nel vostro bicchiere, soprattutto a voi che vi state scagliando contro la Ice Bucket Challenge, (per quei due o tre che ancora non sanno cosa sia), l’iniziativa promossa al fine di raccogliere fondi per sostenere la ricerca sulla SLA. In cosa consiste? Ve lo spiego rapidissimamente. Prima si fa una donazione, poi, ci si rovescia addosso una secchiata di cubetti di ghiaccio e acqua gelata; ve la ricordate la doccia gelata piovuta sulla testa a G quando gli hanno comunicato la diagnosi? Ecco il senso della secchiata d’acqua è proprio quello, far capire attraverso un gesto sdrammatizzante, come ci si sente quando quelle tre lettere vengono affibbiate proprio a te. Dopo si sfidano tre amici a fare altrettanto, e avanti Savoia, la catena è iniziata e si va avanti non so fino a quando, ma spero molto a lungo.
L’iniziativa è partita dagli Stati Uniti, dove sono stati raccolti veramente una montagna di dollari, ma si sa, in queste cose gli Americani sono fantastici, i detrattori li definiscono dei bambinoni, in parte è vero perché loro si entusiasmano veramente per queste iniziative, ci credono e ci mettono l’anima. Gli Americani fanno tutto “di più”: Natale è più Natale, mettono luci lucine e lucette anche nei posti più impensabili, il Giorno del Ringraziamento ogni americano che si rispetti tira fuori la sua bandiera e la mette alla finestra, hanno un senso patriottico che noi ci sogniamo e poi quando un americano ti abbraccia lo fa più forte di tutti gli altri. Sotto questo aspetto noi dovremmo imparare un po’ da loro come ci si comporta.
Ma torniamo ai nostri cubetti di ghiaccio.
Grazie ai social network e a internet, la IBC (Ice bucket challenge) ha fatto il giro del mondo e, manco a dirlo, sulla home page di ogni utente Facebook, è tutto un fiorire di secchiate d’acqua. Apriti cielo!
Che la polemica abbia inizio. Si parte da quelli che si scagliano contro lo spreco d’acqua, che poi magari polemizzano dal bordo della loro piscina, o sul lettino di un qualche parco acquatico in giro per il mondo ( l’acqua delle piscine deve essere evidentemente acqua benedetta non passibile di sdegno mediatico), agli idioti che, senza timore di passare per stupidi, si sfidano a prendersi a secchiate, ma soldi non se ne parla, al limite “ci deve pensare lo Stato visto che io già pago le tasse”, a quelli che, con le mani bene chiuse in tasca, criticano la donazione di Tizio “troppo scarsa”, di Caio “la beneficenza si fa in silenzio e nell’anonimato” e di Semproneo “lo fa solo per farsi pubblicità, in realtà non gliene frega un accidente”. Insomma, ce n’è veramente per tutti, nessuno è salvo, però, almeno se ne parla. E anche questo è positivo.
Ma torniamo a G. Vi domanderete chi è G.
G è un amico, io c’ero quando ha conosciuto la ragazza che poi è diventata sua moglie, ed è stato offrendo un cioccolatino a sua moglie (mia cara amica) che ho scoperto che sarebbe diventata mamma del loro primo figlio, sono due delle poche persone che stimo veramente, sempre uniti e complici, ma mai melensi. Concreti e discreti. Già, perché io ufficialmente non so niente, me l’ha confidato un amico comune, fra le lacrime, perché lui ha già perso un amico per colpa di questa malattia.
Storie di amicizie che si accavallano l’una con l’altra, e poi la vera difficoltà: sorridere quando vorresti piangere, ridere quando vorresti capire meglio, parlare del più e del meno, quando in realtà vorresti affrontare l’argomento. Non è facile, ma poi pensi a quali e quante difficoltà dovranno affrontare loro due, e il tuo sforzo per rispettare il loro più che giusto desiderio di normalità, diventa ben poca cosa. G si merita tutto, si merita ogni euro o dollaro che questa iniziativa ha contribuito a raccogliere, e si merita ogni minimo sforzo per trovare una cura. G si merita la dignità a cui ha diritto ogni malato di questo mondo, G si merita la vita che ha progettato per sé e la sua famiglia.
Ho fatto la mia donazione con questo spirito, e non mi interessa se come dicono alcuni, che i soldi raccolti se li mangeranno in buona parte le case farmaceutiche. Dovesse rimanere anche un solo euro utile della mia donazione, magari sarà proprio con un vetrino pagato con quell’euro che, un ricercatore illuminato troverà la cura per G e per tutti gli altri G sparsi in giro per il mondo.
Ben vengano quindi i cubetti di ghiaccio, le docce gelate e i filmati su Facebook, ben venga che se ne parli fino allo sfinimento, perché se se ne parla, la SLA farà sempre meno paura e G e la sua famiglia avranno una speranza in più.
Che si indignino pure coloro che si vogliono indignare, io preferisco aiutare un amico.
E adesso “I challenge you” ma ti risparmio la doccia gelata, mi basta che tu faccia una piccola donazione, basta l’equivalente di un aperitivo per me e G: lo berremo alla tua salute. Ringraziandoti di cuore.
http://www.aisla.it/news.php?id=3197&

“Nera come la notte, dolce come lo zucchero”

Siamo qua, io e lei, io sul divano con il piede fasciato, lei comoda nella sua cuccia super imbottita. Le giornate scorrono lente, non posso fare molto, il piede fa un male cane solo se oso fare qualche passo in più, devo stare ferma. E basta.
Osservo lei, adorabile cagnone di undici anni e mezzo, la guardo e sento molto forte dentro di me la marea ritirarsi per formare l’onda lunga dei ricordi. Il presente indietreggia proprio come il mare, e all’orizzonte la vedo la cresta bianca che si avvicina.
Non ho mai avuto paura delle onde quando il mare era mosso: aspettavo che si avvicinassero alla riva e al momento giusto, ossia quando l’onda si sta per rompere, cominciavo a correrle incontro, prendevo fiato e a testa bassa, mi ci tuffavo dentro. Qualche volta sentivo la punta dei piedi rimanere intrappolata nel ricciolo dell’onda, e soffiando fuori l’aria dal naso inclinavo il capo e con gli occhi aperti vedevo il cielo attraverso lo specchio d’acqua che si faceva sempre più sottile. E all’improvviso le risate dei miei amici, che facevano il bagno insieme a me, rompevano il silenzio del mare visto da sott’acqua.
Era novembre, il 20 novembre 2003, quando a sorpresa mi è stato detto che quella mattina saremmo andati a prendere un cane, una labradorina nera di quattro mesi, rimasta invenduta in quanto ormai aveva superato il periodo in cui i cuccioli sono adorabili e irresistibili….Presa in saldo, a metà prezzo: il miglior affare della mia vita, già perché a distanza di anni, l’investimento iniziale ha fruttato un patrimonio non quantificabile di affetto, ricordi, risate, gioia pura. Perfezione.
Sasha è stata ribattezzata subito Tabata, e ha fatto così il suo ingresso trionfale nella mia vita. Buttandola all’aria e arricchendola all’inverosimile.
Già, perché se non lo vivi non lo puoi capire (quanto odio le frasi fatte…ma tant’è…).
Tabata mi ha fatto capire che la casa super pulita e ordinata pronta per comparire sulle pagine di AD è fichissima, ma vuoi mettere il sorriso che nasce spontaneo sul tuo viso quando nell’ordine perfetto di casa, vedi spuntare pupazzetti, ciabatte e palline? Vuoi mettere il piacere che provi girando la chiave per entrare in casa perché sai che ad attenderti c’è una coda impazzita, due occhi grandi così e un essere pervaso dalla testa alla coda da gioia infinita solo perché sei tornato a casa?
Amo la mia Tabata e il suo odore, perché per me è profumo di casa, conosco e so leggere tutte le sue espressioni al punto che, per ridere, Tabata ha una voce, una vocina inventata da me, con cui interpreto quelli che secondo me sono i suoi pensieri. È un giochino che parla d’amore perché solo chi conosce molto bene me e lei lo può capire e condividere questi dialoghi surreali, e desiderare di farne parte.
Tabata mi ha insegnato la pazienza, il saper aspettare, il gioire delle cose più stupide, e che ci sono momenti così perfetti e pieni di armonia che anche una sola parola è superflua, che alcuni silenzi sono belli così come sono e non c’è bisogno di riempirli a qualsiasi costo.
Mi ha insegnato a saper aspettare, che l’attesa di chi ami è quanto di più dolce ci possa essere, perché sai che la tua attesa non sarà vana. Ti fidi talmente tanto da riporre dentro di lui tutta la tua fiducia, sei disarmato davanti a chi ami, disarmato e senza paura. Questo impari, vivendo con un cane.
Impari a vivere disarmato, a fidarti ciecamente, a essere leale e fedele, e nonostante il fatto che, davanti a questo tripudio di virtù, il mondo intero si dovrebbe mettere in ginocchio, il cane rimane una creatura semplice e docile. Il cuore dei cani è puro, non conosce la malizia dell’inganno, del doppio gioco e della falsità, sono eterni bambini, per un niente fanno gli offesi ma basta una carezza e si dimenticano di tutto, non conoscono il rancore o la vendetta. Percepiscono il tuo dolore e desiderano farne parte, sempre in silenzio, mute presenze che ci accompagnano per troppo poco tempo.
Però bisogna essere onesti, e chi non ha mai desiderato di fare a fettine il proprio cane perché si è mangiato qualcosa di non propriamente edibile ? Io mi ricordo di un paio di occhiali da sole: se lo spedivo alla Ravensburger lo avrebbero inscatolato con su scritto “puzzle da 10.000 pezzi”, e lei che ai tempi avrà avuto neanche due anni, sembrava così fiera del suo operato, proprio non capiva il perché di così tanto fervore da parte mia. Mi guardava e basta, ho capito che l’unica chance che avevo era di farmela passare, tanto ormai il danno era fatto.
Per non parlare di quelle sere che sembra che la pioggia la tirino giù con i secchi, che non metteresti il naso fuori di casa per nessuna ragione al mondo, eppure lui ti guarda pieno di speranze, bisogna uscire, e ciò che per te è drammatico (uscire con la pioggia), per lui è fantastico. Te vedi il diluvio, lui il musical “Singin’in the rain”, ed è del tutto inutile cercare di fargli capire di sbrigarsi, l’adorabile creatura, davanti ad una richiesta di velocizzare i tempi, si bloccherà, con il risultato che tornerete a casa fradici, pronti serviti per una polmonite… Lui dormirà beato asciugato di tutto punto, voi tossendo, starnutendo con 40 di febbre… Ma nemmeno allora riuscirete ad arrabbiarvi con lui.
Tabata è la bontà di cui la mia vita ha bisogno, è l’autorizzazione a rotolarmi sul tappeto, a fare cose stupide, a giocare come se avessi cinque anni. Mi guarda adorante anche se sono impresentabile, e mi serve a ricordare che spesso ci riempiamo la testa di sovrastrutture del tutto superflue. Tabata e tutti gli altri cani, badano all’essenziale, e con le buone o le cattive ad esso ci riconducono.
È che non possiamo immaginarlo, finché non lo viviamo.

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….Le décolleté nere di mamma.

E ditemi un po’: ve la ricordate voi la prima volta in cui avete infilato i vostri piedini dentro ad un paio di scarpe con i tacchi? La prima prima primissima, intendo dire?
Io sì, è uno dei ricordi più nitidi di quando ero bambina, 6/7 anni al massimo, forse meno.
Ricordo che ero in camera mia a giocare con il mio Cicciobello a fare la mamma, quando la mia attenzione è scivolata via, andando a bussare all’antina del comodino di mia mamma, nella camera da letto dei miei genitori.
Il comodino aveva (ha, perché è ancora fermo lì al suo posto) un cassetto, e sotto uno sportellino che protegge un vano porta oggetti, e mia mamma, allora, conservava lì dentro due paia di scarpe, anche perché di più non ce ne stavano. Un paio in particolare erano custodite dentro ad una scatola bianca opaca con delle scritte verdi: la aprii, ed eccole li, le décolleté nere di mamma, quelle a punta altissime che metteva nelle serate speciali, quelle in cui io e mio fratello venivamo spediti a casa di mia nonna Maria, o mia nonna Maria veniva a casa da noi a farci compagnia, per intenderci.
Che meraviglia, con quelle scarpe ai piedi mia mamma diventava altissima e bellissima e andava a ballare con mio papà, una coppia stupenda: alti uguali, sorridenti e belli, dei fighi pazzeschi, insomma.
Numero 38, tacco perfetto, il mio minuscolo piedino di bimba stava quasi tutto dentro alla pianta della scarpa, lo osservavo e mi sembrava fatto apposta per stare li dentro: traballando mi sono alzata dal letto e ho raggiunto lo specchio, fu amore a prima vista.
Ne aveva altre di scarpe con i tacchi, ma come quelle nessuna, quelle erano magiche, me le infilavo e diventavo grande.
Mi ricordo che poi frugavo nel suo portagioie alla ricerca di un paio di orecchini che sembravano due piccole more, ma erano turchesi, montati su metallo dorato, con la chiusura a clips, me li fissavo alle orecchie, ed ero ancora un po’ più grande. Poi passavo alla fase trucco. Un pasticcio inenarrabile.
Nel cassetto del comò, conservava un piccolo cofanetto quadrato con il coperchio smaltato con disegnato sopra un fiore, aveva l’apertura a scatto, schiacciavii il bottoncino e lui si apriva. C’era lo specchietto, un vano porta cipria con il piumino e poi il rossetto, rosso scarlatto: mi ricordo ancora adesso il profumo di quel rossetto. Profumo di proibito.
Sempre da quel cassetto tiravo fuori una borsetta fatta a crochet nera, tutta tempestata di cristalli neri, con cerchietto per capelli coordinato (ragazzi che classe!), mi pasticciavo gli occhi con dell’ombretto turchese (erano i favolosi anni ’70) et voilà: ero adulta. O meglio simulavo di esserlo.
Tornavo nella mia stanza, mettevo il Cicciobello nel suo passeggino e andavo a fare una passeggiata nel mio parco immaginario, che poi altro non erano che i corridoi di casa, dove ad un certo punto incrociavo mia madre che, senza tanti giri di parole, mi riportava alla mia mesta realtà fatta di pantofole con la suola in feltro, così non rigavo i pavimenti in marmo incerato che ha regalato a me e a mio fratello, memorabili scivolate con pianti disperati a seguire.
Quelle scarpe hanno accompagnato tutta la mia crescita, la mamma non le indossava più perché con il passare degli anni, erano ormai démodé, ma le ha conservate, credo le abbia ancora adesso nello stesso comodino, nella stessa identica scatola.
Io posso tranquillamente affermare che è con quelle scarpe che ho imparato a stare sui tacchi, di anno in anno erano sempre meno grandi, e io sempre meno goffa.
Con quelle scarpe ai piedi e un pigiama meravigliosamente coordinato (potere dei ricordi, rendono tutto bello, anche un mostruoso pigiama in flanella giallo con applicato sulla maglia un pinguino con un berretto rosa che pattina sul ghiaccio), ho ballato una mazurca con mio padre nell’ingresso di casa, la radio accesa in cucina e mia mamma che stirava guardandoci fra il divertito e il commosso. Credo che avessi circa dodici anni, non di più.
E ancora adesso, quando mi capita fra le mani qualche vecchia foto dei miei genitori a qualche festa, lo sguardo va subito a quelle scarpe, ed è ancora viva l’emozione provata da bambina: non avrei mai rinunciato a quella magnifica sensazione di “salire in quota”.
Mi chiamo Manuela, ho quarantun anni e una vera e propria ossessione per le scarpe, ne ho seminate ovunque, a casa mia, a casa di mia mamma, in mansarda, nella cabina armadio, di ogni colore e foggia, alcune sono così scomode da farmi quasi piangere, altre mi hanno accompagnato in lunghissime maratone danzerecce. Ne ho anche qualche paio che non ho mai fatto uscire di casa, mi basta indossarle ogni tanto e farci pochi passi, è il piacere di saperle mie a bastarmi. Altre sono associate a dei bei momenti, e quindi anche se sono vecchie decrepite le conservo, memoria tutta femminile che non deve andare persa….
La mia domanda ora è: ma come fanno gli uomini? Come fanno a non aver mai provato quel piacere perverso misto a dolore acuto che qualche volta ti attanaglia le caviglie e le piante dei piedi. Come fanno a non sapere come ci si può sentire immediatamente sexissime solo indossando un paio di scarpe. Come fanno a non tremare di piacere davanti ad una vetrina piena di scarpe favolose…
Non lo so… D’altronde è anche vero che mentre io caracollavo in giro per casa con dei tacchi ai piedi, e avevo sei anni, mio fratello giocava con i Lego…voglio dire: il gap fra i due sessi era già piuttosto evidente, vi pare?
Da qualche parte ho letto qualcosa che recitava più o meno così “…se una donna può camminare su tacchi altissimi, può tranquillamente conquistare il mondo…”meglio allora imparare a farlo da piccole, giusto per essere tranquille.
Io avevo sei anni, e voi?
Un abbraccio, Magda.

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…Scusate il ritardo…

Santo cielo…ho quasi paura! ho abbandonato questo blog al suo destino, sono mesi che non scrivo più nulla, poi oggi con un pizzico di ansia lo riapro e, con mia grande sorpresa: è cresciuto!

Continuano a esserci visite e continuano ad aumentare i “Like”, insomma a farla breve, il mio timore più grande, e cioè quello di non avere niente di interessante da dire, si è rivelato parzialmente infondato. Che poi, di cose ne accadono sempre, però la mia crisi (se vogliamo usare una parola grossa), è nata dal fatto che mi sono posta questa domanda: ma esiste davvero qualcuno a cui interessa sapere cosa vedono i miei occhi, e soprattutto come lo vedono?

In un giorno di bassa autostima mi sono detta “ma Manuela, ma a chi vuoi che importi cosa fai, come lo fai, perchè lo fai?” e da lì si è innescato un effetto valanga: un lecito dubbio di partenza si è portato dietro tutte le mie certezze e: addios!

Che sia diventata umile? mmmhhh, non credo, comunque un po’ di sana autocritica non guasta mai; e poi tutto questo fiorire di blog e pagine dove tutti si autoreferenziano come scrittori: io alcune le ho lette, e santo cielo, alcune sono a dir poco avvilenti, dico io se proprio vuoi rendere partecipe il mondo del tuo pensiero, almeno fallo in un italiano corretto, e invece mi sono imbattuta in errori di grammatica, sintassi a dir poco azzardate, poesie in cui la metrica non veniva minimamente presa in considerazione, uno scenario avvilente. E dietro a queste riflessioni è partita la seconda crisi: ma cosa pensa di me chi legge le mie cose? CHI legge le mie cose? Voglio veramente che tutti, amici e illustri sconosciuti sappiano quello che penso e provo e il tutto condito con dovizia di particolari?

E così mi sono arenata. Molto semplicemente.

Sono passati mesi e, a onor del vero, di cose che avrei voluto raccontare ne sono successe a iosa, ma quando era il momento di passare dalle parole ai fatti, infingarda faceva capolino la domanda “ma a chi vuoi che interessi?” e allora il pezzo che nella mia testa era praticamente già scritto, se ne restava lì a sgretolarsi fino a perdersi del tutto. Ora che ci penso: un gran peccato.

Comunque sia, bando alle ciance: sono tornata con l’intento di restare, basta scuse e basta con la pigrizia, è giunta l’ora di far di nuovo correre le dita sulla tastiera.

Dove andremo a parare non ne ho idea, ma almeno proviamoci, e stiamo a vedere.

Un abbraccio a tutti, Manuela

Avere vent’anni: istruzioni per l’uso.

È da qualche giorno che gira su Facebook un link: “i consigli dei trentenni ai ventenni”, l’ho letto un paio di volte con attenzione e ho deciso di rilanciare, di dare ai ventenni di oggi, ma soprattutto alle ventenni, qualche dritta su come passare indenni o perlomeno, limitando i danni, questo decennio.
I trentenni consigliano nell’ordine di: a) darla, b)tenere sempre a disposizione dei preservativi, c)comprare dei preservativi, 4)usare dei preservativi. Un vero chiodo fisso, verrebbe da dire….oppure il padre dell’autore del post è proprietario di una farmacia. Ma non perdiamoci in chiacchiere e arriviamo al nocciolo della questione.
Parliamo un po’ di questo: darla. Dall’alto dei miei 40 mi permetto di ricordarvi che solo una ne avete e dovete farvela durare. Pure di reputazione ne avete solo una, e siccome non siamo più negli anni 70, anni in cui il sesso libero era un modo di rivendicare il diritto alla propria libertà individuale, non verrete ricordate come “quella ragazza così ribelle che attraverso il proprio corpo manifestava il suo libero pensiero”, macché, verrete ricordate semplicemente come quella che ai tempi dell’università se la sono fatta tutti perché non diceva di no a nessuno e “se vuoi fare un centro sicuro provaci con lei”. Ho un fratello maschio e di questi discorsi ne ho sentiti a centinaia, diciamo che parlo con assoluta certezza di causa.
Una dispensa piena di preservativi pronti all’uso. Parliamone un secondo. Fare sesso è bello e divertente e piace più o meno a tutti, ma se rimorchiate qualcuno, è proprio indispensabile darci dentro la sera stessa come due assatanati? e il giorno dopo che fate? e quello dopo ancora? non sapete niente l’uno dell’altro e già siete vittime della noia più assoluta. Ragazze fatevi un pochino desiderare, senza essere della principesse sul pisello,il che volendo è attinente all’argomento trattato, anche perché non vi state perdendo la trombata della vita gioie mie; lo farete più o meno nello stesso modo per il resto della vita. E quindi non scappa niente. Se a scappare è lui, l’altra metà di cielo, non disperatevi, avete vinto alla lotteria: era uno che da voi voleva una cosa sola…si brucerà qualche diottria in solitudine con buona pace dei suoi sensi, e voi siete salve.
comprate dei preservativi. Ma comprali tu, carino. Vuoi fare un giro al Luna Park? e allora compra almeno i biglietti. E ho detto tutto. In caso fosse sprovvisto vi rimando al punto 2.
Usate i preservativi. Ve lo hanno già detto che i bimbi non li portano le cicogne e che tantomeno nascono sotto ai cavoli, e che baciandosi non si resta incinte (Cioè, rivista adolescenziale dei miei tempi, rubrica “posta del cuore”), vero? Bhè ci sono altre cose che possono arrivare a sorpresa: le malattie a trasmissione sessuale. Quindi proteggetevi, se siete sprovvisti di condom rifiutate e siate irremovibili. Anche se a ventanni vi sentite invincibili, di vita ne avete una sola.
Prendi una donna e trattala male NON è un comandamento. Era solo il testo di una canzone degli anni 80 passata alla storia che si intitolava “Teorema”. Quindi se uno vi fa soffrire, aria, sciò sciò, via il più lontano possibile da voi, dalla vostra vita e dai vostri pensieri. Imparate a memoria quest’altra frase tratta dal testo di una canzone anni 80, molto più bella, tra l’altro: “Gli uomini non cambiano”, se uno è stronzo a vent’anni lo sarà con ogni probabilità anche a trenta e a quaranta. Lasciatelo perdere, con il senno del poi, capirete che non vi siete perse niente.
Rendetevi indipendenti, sotto tutti i punti di vista, i soldi non crescono spontaneamente nelle tasche dei vostri genitori e, a meno che non abbiate la fortuna spacciata di avere un seguito di servitù vita natural durante (cosa che vi auguro di cuore), dovrete sfamarvi e garantire un minimo di igiene a voi e alla vostra casa. Imparate quante più cose possibili dalle vostre mamme, vi tornerà utile più di quanto immaginate.
Investite su di voi. Viaggiate, studiate, leggete, imparate bene una lingua, formatevi un’idea vostra, un punto di vista che non deve essere per forza quello giusto, ma è il vostro e quindi va più che bene è non vale meno di quello degli altri.
Per fidanzarvi, accasarvi, mettervi una palla al piede avete tanto di quel tempo che non lo immaginate nemmeno. Godetevi il vostro tempo e usatelo: per voi.
Prendetevi cura del vostro corpo, della vostra pelle, dei vostri capelli ma non diventate schiave di trucchi e belletti. Avete dalla vostra parte la bellezza dell’età e se vi vedete un po’ bruttine, non preoccupatevi: ho visto brutti anatroccoli diventare maestosi cigni.
Il turpiloquio e, ancora peggio, le bestemmie sono fastidiose e imperdonabili già sulla bocca dei ragazzi. Sulla bocca di una ragazza sono avvilenti e squallide; voi pensate di essere fichissime a parlare come uno scaricatore di porto, ma se guardate un pochino intorno a voi: noterete solo sguardi di totale disappunto, siete delle sfigate fatte e finite. Complimenti, bel risultato.
Fidatevi di me: meglio avere molti amici e qualche corteggiatore, piuttosto che il contrario, meglio ancora non pensare di avere dei corteggiatori: vi renderà simpatiche e spontanee e tutti vorranno godere della vostra compagnia. Tanto credete a me, ci sono pochissime probabilità che il fidanzatino dei vent’anni diventi il vostro compagno di vita, mentre gli amici, beh, quelli si che cresceranno con voi. Quindi coltivate le vostre amicizie. Per l’amore c’è tempo.
Se siete proprio zuccone e avete ignorato il mio consiglio n. 11 sappiate che arriveranno presto le pene d’amore. Sì, lo so, son dolori, ma fidatevi di chi c’è passata: fa un male cane ma si sopravvive; a giro ci siamo passate tutte, fiumi di lacrime, intenti suicidi e pagine su pagine di diari. Poi come per magia il cuore ricomincerà a pulsare e la vita tornerà a sorridervi. Siccome avete scoperto sulla vostra pelle che fa un male cane, non fate le stronze con i cuori altrui. Mi raccomando.
Ricordatevi che siete uniche e se qualcuno vuole farvi dubitare mandatelo a quel paese.
Il consiglio n.13 è il più prezioso e utile. Fatene tesoro anche perché è valido a 20, a 30, a 40 e oltre.
Un abbraccio a tutte, Magda.

Quando saremo vecchi

Quando saremo vecchi, ma vecchi veramente, vecchi che cammineremo curvi e mi sarò arresa all’inutilità della tinte per capelli, vecchi che i ricordi peseranno sulla bilancia molto più dei sogni futuri, cosa ci ricorderemo di questa casa?
Ci ricorderemo forse di quanto era lindo e lustro lo specchio del bagno? Di quanto era gratificante pulirlo col lo straccio e lo spray per i vetri? O sarà molto più vivo e bello il ricordo delle nostre facce riflesse in esso, al mattino, mentre tu ti fai la barba e io mi trucco per uscire, la radio accesa di sottofondo e la quiete intorno a noi? peserà di più una goccia d’acqua da levare immediatamente, o il tuo sorriso che riflesso mi si incastonava nel cuore come la più preziosa fra le gemme?
E del tappeto del soggiorno che vogliamo dire? La mia sfida quotidiana (quasi quotidiana, ok). Mi piaceva vederlo pulito e lucido nel suo algido color grigio perla, però poi a ben pensare era molto più bello quando ci mangiavamo sopra la pizza nel cartone,bevendo Coca Cola dalla lattina, guardando un bel film alla tv, e Tabata che si acciambellava vicino a noi, era il prato immaginario su cui ci siamo sdraiati, rilassati, addormentati, fatto l’amore, era la nostra isola, e sulle isole deserte non esistono gli aspirapolvere, bisogna accettarlo e farsene una ragione.
Non penso nemmeno che ci ricorderemo con un brivido l’invisibile splendore dei vetri di casa nostra. Anche perché forse, perfettamente puliti lo sono stati poche ore in una vita intera. Però Tiger, il nostro gattone che ci chiamava per aprire le finestra della cucina strusciandocisi sopra, sicuramente ce lo ricorderemo, così come ci ricorderemo il rumore della pioggia che batteva sui vetri e di come ci incantavamo a guardarla ipnotizzati. Per non parlare della lavastoviglie, e delle strategie perfezionate nel corso degli anni per lasciare all’altro l’ingrato compito di svuotarla: finti ritardi, corse al lavoro, immotivate e prolungatissime soste in bagno. Tazzine del caffè, coppe gelato, bicchieri e cucchiaini l’hanno fatta da padroni per anni, se vogliamo, la lavapiatti è stata la muta testimone di quanto siamo stati lussuriosi e gaudenti, quasi come la bilancia, che, della nostra golosità è stata il giudice implacabile ogni mattina per mesi, quando abbiamo capito che bisognava mettere un freno alla nostra gola.
Le mie scarpe sempre tra i piedi e te che ti lamenti, io che lì per lì le tolgo, ma il giorno dopo sono esattamente dove erano il giorno prima, così come la mia borsa, la mia giacca, i miei occhiali e le interminabili cacce al tesoro per trovarli, perché chissà come mai, all’improvviso spariscono dalla circolazione; io che vado in panico e tu che con calma ricostruisci i miei ultimi movimenti e li trovi.
Ti ho mai confessato quanto mi piaceva disegnare con il dito sul vetro del tavolo della sala da pranzo? un sole, un cuoricino, l’iniziale del tuo nome, poi superato il momento di dilagante romanticheria lo pulivo per bene; devo ammetterlo, non sono mai stata una perfetta donna di casa, se dovevo scegliere fra spolverare da cima a fondo casa o andare in giardino a giocare con Tabata, io non ho mai avuto dubbi, così come non mi sono mai sentita in colpa se un giorno, ma anche due, non ho passato la lucidatrice sul parquet.
Eppure casa nostra ha sempre accolto e abbracciato tutti, e tutti si sono sempre sentiti a loro agio. Casa nostra è sempre stata una casa sorridente, viva, allegra, pulita quel che basta, ordinata il giusto, senza paranoie e eccessi.
Non mi è mai passato per l’anticamera del cervello di tirare tardi la sera a lucidare i sanitari del bagno quando magari l’alternativa era stare appiccicata a te sotto il piumone a guardare la televisione o a dire stupidate senza senso ridendo come scemi, cosa credi: la vita è una sola e io sono felice di aver speso la mia a seminare in ogni angolo della nostra casa tracce del nostro amore e della nostra esistenza, come un quadro fatto da noi due a quattro mani, o un disegno fatto con i pennarelli su uno specchio, e non importa se quella che per me era una farfalla perfetta, per te non era niente di più che uno scarafaggio, perché i tuoi occhi brillavano mentre mi prendevi in giro sul fatto che io a disegnare sono proprio negata.
Sarà che sono sempre stata convinta di una cosa: le persone fissate con l’ordine e la pulizia secondo me nascondono più gravi e pericolosi disordini interiori, e allora hanno bisogno di dissimulare questa realtà rendendo l’ambiente che le circonda il più ordinato e asettico possibile. Se sia vero o falso non lo so, so che per me è sempre stato un alibi perfetto, e me ne sono sempre stata. Anzi, quando esponevo questa teoria ad altre persone, ero talmente convinta io da persuadere anche loro, forse perché a tutti piace da matti avere a disposizione una scusa perfetta per allontanare ancora un po’ l’antipatico dovere per fare spazio ad un gioioso piacere. E le persone che dicono che per loro pulire casa è fonte di gioia sono persone pericolose, bombe inesplose, potenziali serial killer: meglio evitarle, star loro alla larga, che non si sa mai cosa gli può frullare in testa.
Quindi, amore mio, quando saremo vecchi ma vecchi veramente, ricordiamoci di quanto era bella la nostra casa, ma con la consapevolezza che a renderla così bella eravamo noi, con la nostra felicità che diventava creatività, intuizione e fantasia, dentro questa casa i bambini che erano in noi non sono mai cresciuti,non glielo abbiamo permesso, e non hanno risentito degli anni che passavano uno dopo l’altro, dopo l’altro e un altro ancora. Questo sì che è stato un risultato portentoso.
E’ un’esperienza entusiasmante diventare adulta al tuo fianco, e mentre te lo dico faccio una nuvoletta di fiato contro il vetro e con un dito ci disegno dentro un sole.

Portofino e i “carontisti”

I primi arrivano quasi in sordina, con il traghetto delle 10.00, sono quasi tutti anziani, per la maggior parte stranieri, lo si intuisce dal pantalone a pinocchietto che sfoggiano con baldanzosa nonchalance e dal sandalo da frate.
Scendono dal traghetto e armati di cartina geografica di Portofino, si incamminano e spariscono, risucchiati dalle vie del paese. Loro, questo sparuto manipolo di turisti, sono l’avviso, la minaccia di quello che sta per accadere, come quando poco prima del diluvio vengono giù quei goccioloni grossi che se ti cadono in testa fanno quasi male.
Infatti alle 10.30 entra in porto il traghetto di linea che parte da Rapallo un’oretta prima, è talmente pieno che sembra un barcone di profughi pronti ad tutto pur di raggiungere la famigerata Piazzetta.
Sono le anime perse di Dante “..Caron dimonio con gli occhi di bragia, loro accennando tutti li raccoglie…” solo che al posto del fiume Acheronte, noi abbiamo il Golfo del Tigullio, e invece di essere traghettati all’Inferno, vengono mollati tutti sulla banchina del porticciolo di Portofino. È grazie a questo illuminante paragone se i turisti che raggiungono Portofino in traghetto, vengono chiamati “carontisti”.
Un misto di varie umanità amato e odiato da chi vive la realtà del borgo tutti i giorni. Amato perché che piaccia o no, foraggiano alimentano e sostengono la fortuna di chi qui ha bar, gelaterie e negozi di souvenir. Odiati perché riportano bruscamente alla realtà chi è ancora convinto fra i vari commercianti che Portofino sia una piazza esclusiva degna solo di accogliere fra le sue lussuose braccia, sceicchi, imprenditori e star del jet-set. Niente di più falso.
Addio tempi gloriosi in cui uno sceicco entrava in una boutique qualsiasi e letteralmente la svuotava, lasciando mance lautissime; sì certo, ogni tanto arriva la notizia di qualche collega che ha fatto una super vendita, ma ormai sono urla nel deserto.
A far la voce grossa qui ora sono i russi che con le loro carte di credito sfavillanti e una totale assenza di educazione e savoir vivre dettano le regole, che si possono sostanzialmente riassumere in un lapidario “io pago, io comando” e bisogna pure dir loro grazie, altro che mugugni.
Son finiti i tempi bellezza mia delle bottiglie di champagne a mille euro a boccia usate per lavarsi i piedi, ora se il fornaio mette un pezzo di focaccia 3 euro anziché 2, arriva pesante la mannaia di Tripadvisor che ti mette virtualmente sui ceci con una recensione da paura. Nell’angolo con le orecchie d’asino in testa fino a nuovi ordini. E silenzio.
I ristoratori mugugnano perché i carontisti non fanno pranzi pantagruelici , prendono una pasta in quattro, niente pane e acqua del rubinetto, però se poi arriva Afef e pilucca solo una mozzarella con un foglia di lattuga, beh lei può, lei è vip. Che tradotto in soldoni vuol dire che la sua mozzarella e lattuga gliela faranno pagare come una bufala intera (l’animale, sia chiaro) e la lattuga più o meno come il rifacimento del prato di San Siro, e lei non batterà ciglio. Tanto ci pensa il Tronchetti, e lui non fa sicuramente le pulci allo scontrino fiscale come ho visto fare a illustri sconosciuti. Intere tavolate di stranieri riunirsi in simposio per cercare di capire quella strana voce “coperto” a loro sconosciuta, della serie “mica te l’ho chiesta io la doppia tovaglia, io avrei mangiato direttamente sul tavolo”.
Si fanno le foto davanti alle vetrine di Dior, Louis Vuitton e Pucci, ma poi vagano alla ricerca della maglietta con la scritta Portofino a 15 euro, perché se “Sanremo è Sanremo” anche Portofino non scherza.
Traghetto che arriva, turista che trovi. Ma le domande sono sempre le stesse.
Dove si trova il castello di Berlusconi? A seguire “ma Lui è qui? Lo ha mai visto? Come è?”
Dove si trova la villa della Contessa Vacca Agusta?
Dove si trova la villa di Dolce e Gabbana? A seguire le stesse altre domande relative al Cavaliere.
Di chi sono le barche in porto?
Chi c’è oggi in giro di vip?
Queste sopra elencate sono le domande che fanno tipicamente gli italiani, gli stranieri sono più fantasiosi. Ad esempio:
Dove è la stazione di Portofino?
Dove sono i centri commerciali?
A quanti minuti di cammino si trovano Le cinque terre/Portovenere/Forte dei Marmi? E quando gli rispondi che ci vogliono qualche centinaia per non dire migliaia di minuti, e che quindi sarebbe meglio che prendessero un treno, ci rimangono male, perché nel loro immaginario la Liguria è piccola piccola piccola, e non hanno torto se la paragoni all’Australia o agli Stati Uniti, ma per tanto piccola che sia, non puoi pensare di attraversarla tutta a piedi e in giornata.
Portofino è anche e soprattutto questo: turismo mordi e fuggi totalmente low cost, accessibile a tutti, come è giusto che sia. Perché “i found my love in Portofino” la conosciamo tutti e a tutti piace sentirsi un pochino vip camminando sui ciottoli che a suo tempo furono calpestati da Elisabeth Taylor e Frank Sinatra.
E per uno che entra in una gioielleria e compra quella favolosa collana da 30.000 euro senza battere ciglio, ci sono almeno cento signore che davanti a quella collana in vetrina hanno sognato di indossarla, altre cento si sono fatte la foto e poi c’è un drappello di signore napoletane che dopo aver visto il prezzo hanno così commentato “ma che è di Svarokki (Swarovski)?” E si sono allontanate ridendo, dando una vigorosa leccata al cono gelato che si stava sciogliendo e camminando svelte svelte nei loro sandali ortopedici perchè Caronte non aspetta.

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