Quante volte mi è stato chiesto: “perché scrivi?”
Come se la risposta fosse semplice…
Scrivo da sempre, da quando ho imparato a tenere in mano la penna stilografica, e ancora di più da quando ho scovato in soffitta una vecchia macchina da scrivere di mia mamma, la lettera 22 dell’Olivetti. È stato un colpo di fulmine, infilare un foglio nel rullo e poi cominciare a dattiloscrivere, prima solo con due dita, poi con dieci (a ragioneria ai miei tempi non c’era l’ora di computer, ma l’ora di dattilografia). Il tlac tlac dei tasti era musica per me e scrivevo qualsiasi cosa, lettere che non ho mai spedito, favole, racconti, poesie, capitoli di libri mai finiti, pensieri senza capo e senza coda. Basta scrivere.
Scrivere per me è la vera libertà, è entrare in contatto con me stessa chiudendo tutto il mondo fuori, è fare un tuffo nel silenzio più assoluto e lasciare che la mia voce venga fuori. Scrivo quando sono felice e i pensieri scorrono veloci e freschi come un ruscello di montagna, quando non devo contenerli o arginarli, ma solo lasciarli scorrere senza preoccuparmi di dove andranno a parare.
Scrivo quando sono triste e ogni parola che riesco a tirare fuori è una spina che mi levo dall’anima, è un sasso che afferro e scaglio lontano. Le parole che scrivo sono le lacrime che non riesco a piangere, perché partono da così tanto a fondo dentro di me che non riescono ad arrivare agli occhi e restano lì, amare e dolorosissime. Ed ecco che come per magia arriva in mio soccorso la scrittura: mi chiudo in me stessa e lascio le redini, parola dopo parola l’anima si fa più lieve.
Scrivere è il mio canto senza voce e senza musica, è la matita con cui disegno su fogli invisibili agli altri, è un mondo dove esisto solo io, dove il tempo passa in base al ritmo che sono io a scandire, può essere velocissimo oppure estremamente lento, non esiste la parola ritardo, e nemmeno la fretta.
Scrivere è il veicolo con cui riesco ad avvicinarmi a chi non è più fisicamente vicino a me: mio padre scriveva pensieri bellissimi, un camionista ruvido e di poche parole ma, quando scriveva qualcosa per qualcuno riusciva a trovare, per ogni singola sfumatura del suo pensiero, la parola più giusta. E io so che questa cosa me l’ha regalata lui.
La cosa strana? Fino a pochissimi anni fa nessuno aveva accesso ai miei scritti, erano miei, solo miei, esclusivamente miei e l’idea che qualcuno potesse leggerli mi era intollerabile. Troppo riservata per mettere in piazza le mie sensazioni più intime e private: voi vi fareste vedere nudi in piazza? Ecco appunto, per me è esattamente la stessa cosa.
Poi è arrivato Facebook e, da dietro lo schermo, senza stare troppo a riflettere che alla fine, quello che scrivi in bacheca è quanto di meno privato ci possa essere, i primi pensieri hanno cominciato a uscire come acqua dalle crepe di un vaso incrinato, e con mio grandissimo stupore, e altrettanto imbarazzo, ho scoperto che piacevano, che c’era qualcuno che spendeva un pochino del suo tempo a leggerli. Indubbiamente una bella sensazione.
Poi come in tutte le favole che si rispettano è arrivata la fatina buona, nel mio caso una fatina alta un metro e ottanta e pesante quasi cento chili che un giorno mi ha regalato un I Pad e mi ha detto “ora non hai più scuse, ora scrivi e pubblichi”. Così è nato Magdaefurio, il mio blog, la mia creatura, il mio castello incantato di cui, giorno dopo giorno, ho riempito stanze su stanze con fiumi di parole. Ogni tanto vado indietro e apro la porta di una di queste stanze per vedere che cosa c’è dentro, per cercare di capire, attraverso il passare del tempo, come sono cambiata. Ed è una sensazione difficile da spiegare vedere che altre persone hanno aperto la porta di quella stanza e letto quel pezzo che ho scritto magari durante un viaggio in treno, e che qualcuno si è pure preso la briga di lasciare un commento, un segno del suo passaggio.
Io che per eccesso di timidezza non ho mai fatto leggere niente a nessuno, e che la prima cosa che ho trovato il coraggio di far leggere pubblicamente è stata la lettera che ho scritto a mio padre il giorno del suo funerale: per me c’eravamo solo io e lui, non era mica reale la chiesa piena di gente, i fiori, i canti solenni. Io e lui persi nel mio mondo fatto di parole, un mondo evanescente, senza peso e materia, ma dove ogni singola parola ha un suo posto ben preciso. Perché scrivere è armonia e ritmo, è rendere palpabile ciò che fino al momento esatto in cui lo scrivi era impalpabile e inesistente.
Scrivere è terapeutico e liberatorio, è un bisogno irrinunciabile.
È la mia passione. E un uomo (e una donna) senza passione è un uomo morto.
E allora io continuerò a scrivere, ma non per soddisfare la vanità di sapere che qualcuno leggerà ciò che ho scritto, ma solo per il puro piacere di farlo, senza scopo, senza finalità.
Solo piacere e passione, non mi serve altro.