Cosa ci fa una che non mangia piccante ad un corso di cucina thai?
Me lo sono chiesta anche io ieri sera, quando MariaSole la cuoca insegnante del corso, ha esordito con “la cucina thai è la cucina più piccante del mondo”.
Molto bene, siamo a cavallo….
Ormai ho imparato, se dichiari subito i tuoi punti deboli sei salvo, quindi ho esordito con “non è che non mangio piccante, diciamo piuttosto che il mio approccio è uguale a quello di un bambino di otto anni”.
Ed è così che senza volerlo ho sabotato il corso di cucina thailandese, cosa simpaticamente (ma simpatica sul serio) sottolineata da MariaSole, che durante tutte e quattro le preparazioni a un certo punto esordiva sempre con un “e adesso ci starebbe bene un po’ di peperoncino, ma noi non possiamo” e inevitabilmente lo sguardo di tutti si dirigeva verso di me….
Ma non mi sono arresa e punta nell’orgoglio ho sfidato le mie papille gustative, già perché durante la preparazione del riso all’ananas e cocco, ogni volta che la cuoca aggiungeva piccolissime particelle piccanti di pasta al curry mi chiedeva di assaggiare per vedere se era tollerabile per le mie neofite papille, e io stoica “no non picca” e lei giù ad aggiungere fino ad arrivare al punto che a momenti mi prende fuoco la gola…ho dovuto buttar giù una bella sorsata di birra per venirne fuori, io che come tutti sanno sono astemia, (perché ridete?) però il riso era buono buono.
Finita la birra ci siamo visti costretti ad aprire una bottiglia di tipico pigato thailandese (scherzo, era ligurissimo) e da quel momento in poi l’atmosfera si è rilassata parecchio, e io mangiavo il piccante con una disinvoltura impressionante.
Da provare assolutamente la zuppa Tom yan Kung, certo, se riuscite a reperire tutti gli ingredienti per farla, e pare che l’unica chance sia andare a Genova in Via Gramsci, quindi, nel caso, organizzatevi per tempo infatti per prepararla a puntino serve una misteriosa salsa di pesce, un ancor più misteriosa pasta piccantina in vaso che sembra un paté di pomodori ma se lo mangi muori per autocombustione, lemon grass che presto la troverete anche a Caperana, date solo il tempo necessario a Furio per dare il via alla coltivazione, funghi, passata di pomodoro, gamberi e lime. Inforcate le chopsticks e dateci dentro. Un’unica raccomandazione: provoca dipendenza da tanto è buona.
E poi arriva il momento dello stupore, del sapore che non ti aspetti: preparate un battuto di aglio e zeste di lime mettetelo in una ciotola con dei pezzetti di papaya e ananas irrorati con un po’ di succo di lime. Mischiate il tutto e assaggiate: non crederete a quello che vi diranno le vostre papille. Poi potete tornare alla rassicurante pasta al pomodoro, ma fidatevi, dovete provare. A completamento del piatto piccoli bocconcini di petto di pollo fatti marinare con del succo di lime e poi saltati in padella a fiamma vivacissima, questa è la versione base, se siete temerari e vi piace sudare buttateci manciate e manciate di peperoncino piccante, e preimpostate il 115 (vigili del fuoco) sul cellulare. Rapido buono e salutare.
Altro giro altra corsa: Noodles pad thai, le meduse nel piatto (dopo Hong Kong il mio rapporto con i noodles è irrimediabilmente compromesso). I noodles altro non sono che una specie di tagliatella trasparente un po’ cingosa che si cuoce come la nostra pasta fresca, anche se il paragone è quasi blasfemo, poi una volta scolati li metti in una wok in cui avrai precedentemente preparato un condimento, noi ieri sera avevamo fagiolini, carote e germogli di soia, noccioline tritate, salsa di pesce, lime, aglio e salsa di soia, li fate saltare ben bene e poi ve li pappate e buon appetito.
Io che in sono bravissima in cucina, ho preparato il nostro dolce, attenti al procedimento perché non è facile. Allora rubate agli altri la papaya che hanno già sbucciato e tagliato, e mettetela in una ciotola. Poi, massacrate a coltellate un innocente mango dopo averlo ridotto di un terzo del suo volume nel tentativo di sbucciarlo, prendete i brandelli di mango così ottenuti e provate a dargli una forma simile a dei cubetti che metterete insieme a quelli di papaya, prendete un lime e spremetecelo dentro, mischiate il tutto. Lo so è un po’ difficile, ma ci potete riuscire anche voi.
Importante: per la buona riuscita dei piatti della cucina thai servono alcuni accorgimenti essenziali, ve li riporto pari pari:
– essere sorridenti
– mettersi un fiore fra i capelli
– avere a disposizione casse e casse di lime altrimenti non andate da nessuna parte
– cucinare insieme a gente allegra
– avere a disposizione una piccola alcova perché pare che la cucina thai invogli a ben altri piaceri oltre a quelli della tavola.
Detto questo non resta che aggiungere:
kŏr hâi jà-rern aa-hăan! Che in lingua thai si scrive:ทานให้อร่อยนะ
Non offendetevi, vi ho solo augurato buon appetito.
Tag: Cucina
Hai detto “cuoco”?
Bloccati a casa da influenze, virus e acciacchi vari, l’unico modo per far passare il tempo è stato ammazzarsi di zapping, e dopo giorni passati a saltellare da un canale all’altro, lo devo proprio dire:
I PROGRAMMI DI CUCINA HANNO ROTTO!
Non se ne può più, la parola più inflazionata nei palinsesti televisivi è “cuoco”.
La prova del cuoco, Cuochi e fiamme, In cucina con…, Max cucina l’Italia, Accademia Montarsino, Le conserve di Camilla, La terra dei cuochi, Masterchef, Chef per un giorno, Fuori menù, I menù di Benedetta, Cucine da incubo, Il piatto preferito di…, Il club delle cuoche, interi canali dedicati all’argomento cibo e cucina…basta, davvero.
Io a furia di sentire parole come “dadolata” “spadellata” e poi lasciate soffriggere, fate evaporare, create un’emulsione, e via di seguito, mi rendo conto che sto maturando un vero e proprio senso di ostilità, e il taglio brunoise, e quello a julienne…. Suvvia si tratta sempre e comunque di verdure tagliate a pezzi…
E mi raccomando: che non manchi mai la nota acida, il croccante (i più fighi diranno “il cruch”), il caldo, il freddo e una bella grattata di zeste di limone (già nota come scorzetta, ma mi rendo conto che scorzetta non è abbastanza cool…)per la freschezza, ovviamente.
Ovunque ti giri c’è un esperto di cucina…pardon “food blogger” che mette insieme piatti che poi ti voglio vedere a buttarli giù, dalla finestra forse…ingredienti che non ci azzeccano niente l’uno con l’altro.
Poche sere fa hanno chiesto a una food blogger come cucinasse le mormore. Risposta: a, sì dunque…faccio prima un fondo di mele tagliate a pezzi, metto un po’ di miele per far caramellare il tutto, poi una leggera panatura di mandorle e pistacchi e come accompagnamento una salsa di yogurt profumata al curry. Scusa tesoro sei ancora single, vero? Immaginavo….Ma te la mangerai te ‘sta schifezza, cosa ti ha fatto di male quella povera mormora da darle una così indegna sepoltura?
Io non capisco questa malsana necessità di creare accostamenti impossibili, va bene sperimentare, va bene ampliare le proprie frontiere del gusto, va bene tutto, ma a tutto appunto, c’è un limite, e ve lo dice una che non si tira indietro, a Hong Kong abbiamo provato pure la cucina cinese molecolare estrema di Alvin Lung, particolarissima, ma con un senso.
Essere “food blogger” non è un salvacondotto per propinare porcherie, perché, come ha detto la signorina di cui sopra ” a noi food blogger piacciono questi accostamenti nuovi con presentazioni design”: ma scendi dall’albero che fino a ieri non sapevi cuocere un uovo…
E la memoria corre a una cena favolosa presso il ristorante di uno dei veri maestri della cucina italiana: l’Albereta di Gualtiero Marchesi. Materie prime esaltate all’ennesima potenza grazie ad accostamenti perfetti, consistenze voluttuose, presentazioni stupefacenti, nessuna traccia di banalità e di bizzarrie gastronomiche. Ad ogni boccone percepivi la cultura che sta dietro alla costruzione di un piatto, alla conoscenza degli ingredienti di cui si compone, infatti spesso è lavoro di mesi, altro che “dieci minuti e via”.
Celebre la frase dello stesso Marchesi “così come per suonare Chopin devi conoscere bene la musica, allo stesso modo per cucinare bene un pesce devi conoscere bene le qualità della sua carne” e a riguardo del fenomeno crescente dei food-blogger dice “…Può essere interessante se ci sono dei maestri, se c’è qualcuno che insegna qualcosa, se no fare per fare non serve a niente”.
E spegnete la televisione.
Magda e Furio al corso di cucina.
Magda e Furio al corso di cucina.
E un giorno come tutti gli altri, Furio se ne esce con una trovata delle sue: “potremmo fare un corso di cucina insieme, che te ne pare?”
Anche se confesso di non averci mai pensato, quando me lo ha proposto ho accettato con entusiasmo. Indosso una sgargiante camicia a quadri che Furio odia visceralmente, dice che mi fa assomigliare a un tagliaboschi, io invece la adoro, e sarà che mi ricorda inconsciamente la tovaglia di una trattoria, ma mi sembra molto appropriata, in cucina con un look perfetto, la Cristina Parodi di casa nostra, che farà dei pasticci, non saprà cucinare, tutti la criticano e fanno i sofisticati, ma poi tutti vorremmo essere al suo posto a fare i piaciughi che fa lei, strapagata per farli.
Ma torniamo a noi.
Bene, diventeremo maestri in focaccia al formaggio.
Iscriversi è stato facile, complice un’ amica che lavora dove organizzano questi corsi: L’Accademia dei sapori. E così eccoci qui, con il nostro bel grembiulino e il blocchetto dove appuntare tutti i segreti di cucina che ci verranno svelati.
A dire il vero scrivo solo io, Magda, un po’ perché soffro della “sindrome della secchiona” nel senso che adoro prendere appunti, e un po’ perché Furio considera carta e penna strumenti irrimediabilmente obsoleti. Confesso che anche la semplice lista della spesa, dalle nostre parti, viene fatta usando l’apposita app del telefono, e quello che uno dei due scrive viene trasmesso in tempo reale all’i-phone dell’altro in modo da avere la situazione costantemente aggiornata…non chiedetemi spiegazioni su come funziona l’ambaradan, io mi limito a eseguire pedissequamente quanto mi è stato spiegato.
E poi perché, semplicemente, il boss (lui) detta e la segretaria (io) scrive, sì esatto, sempre per via di quella tacita ripartizione dei ruoli….( ma mi ribellerò un giorno).
La prima domanda che ci facciamo è: ma perché sono tutti serissimi mentre noi sembriamo due adolescenti stupidi in gita? Sono tutti seri seri, e fatevela una risata!
La seconda domanda che io mi faccio, invece è: ma perché a impasto ultimato, la postazione di Furio è tutta pulita mentre la mia sembra che abbiano nascosto un petardo nella farina?
C’è farina per terra, farina in faccia, il grembiule è un pasticcio, ho tracce di impasto sui capelli e sulle scarpe…dovranno far brillare la sala per riportare ordine e pulizia.
È anche vero che non esistono artisti ordinati, il genio artistico si nutre di stimoli, caos, confusione….vero? Provate a immaginare lo studio di Picasso: mica lo immaginerete tutto bello lindo, pulito e in ordine? Forse lo studiolo di Giacomo Leopardi, quello sì che era ordinato, alla peggio c’era giusto lui legato alla sedia che si struggeva d’amore per la cara Silvia…ma non c’è paragone.
1 a 0 per Magda.
E Furio che si pavoneggia di essere il più bravo….
Ma torniamo alla focaccia al formaggio. Steso l’impasto arriva il momento di mettere lo stracchino: Furio tutto ligio e preciso distribuisce con ordine certosino i pezzi di stracchino, Magda rigorosamente a casaccio, butta motti di stracchino e grazie a un momento di distrazione del maestro, ruba un altro pezzo di formaggio…doppia farcitura e spuntino; il mondo è degli scaltri, mica dei precisetti.
2 a 0 per Magda.
Alla prova forno devo ammettere che ne usciamo parimerito, Furio cercherà di perorare la sua causa dicendo che la sua era più equilibrata, che nella mia c’era troppo formaggio…ma si chiama “focaccia al formaggio” mica “focaccia equilibratamente al formaggio”, quindi:
3 a 0 per Magda.
Usciamo dall’Accademia ridendo come matti e sazi, già perché una cosa bella di questi corsi è che prima cucini e poi ti mangi tutto insieme agli altri partecipanti, si apre anche qualche bottiglia di vino e ci si diverte un sacco. Insomma una bella serata, con bella gente, buon vino e buon ciblo: cosa chiedere di meglio?
Però ora concedetemi di essere romantica (ma poco, giuro). La focaccia al formaggio più buona in assoluto è quella che poi abbiamo fatto insieme a casa, a quattro mani; durante la preparazione abbiamo battibeccato come al solito, come al solito lui era il grande chef e io il sous-sous-sous chef, come al solito ci sono stati momenti in cui il mattarello glielo avrei rotto in testa, ma va bene così, perché poi basta un sorriso, una battuta e torna l’armonia.
Perchè l’amore si nutre, sì di piccoli gesti…ma anche di ottime focacce al formaggio.
Delitto al ristorante cinese
Ultimo giorno a zonzo per Hong Kong, vaghiamo così senza meta ridendo come stupidi (cosa che in questi venti giorni ci è capitata spesso), guardandoci intorno incuriositi dalla varia umanità che circola per questa città che, più la vivo, più mi sembra che assomigli a un formicaio.
Si è fatta ora di pranzo, che si fa?
Andiamo sul sicuro, un panino e via, quello con l’insegna con gli archi dorati per intendersi… Ma no, dai, è l’ultimo giorno, caliamoci nella loro realtà locale, andiamo in un ristorante dove possiamo assaggiare la vera cucina cinese, non quella che ci propinano in Italia. E così, traboccanti entusiasmo, ci mettiamo alla ricerca di un ristorante che ci ispiri. Ne troviamo uno molto carino nell’aspetto, pieno di gente che mangia entusiasta, e pure la coda fuori, ci mettiamo in coda pure noi… NON L’AVESSIMO MAI FATTO!
Per ordinare bisognava mettere le crocette sul menù di fianco alle pietanze scelte, noi ligi lo facciamo; quando arriva la nostra cameriera ci fa notare, in un inglese drammatico, che forse abbiamo ordinato un po’ troppe cose, non c’è problema, ne eliminiamo un paio.
Che il mio dramma abbia inizio.
Cominciano a portarci piatti su piatti con sopra ogni genere di cose: un piatto, due piatti, tre piatti, una zuppiera, coppette, piattini, insomma, a farla breve, nel giro di pochi minuti il nostro tavolo è pieno. Dai, diamoci dentro… inforchiamo le bacchette e via, all’attacco del primo piatto. Noodle (erano tagliatelle) con gamberi, capesante e uovo, sulla carta buonissimo, all’assaggio: drammatico, un insieme viscido ricoperto con una bava di uovo e gamberi coriacei. E tanto, tantissimo, non finisce mai. Marca male… La paura si trasforma in terrore quando assaggiamo le altre portate: dire che sono rivoltanti è brutto, diremo diplomaticamente che sono sapori e consistenze a cui noi non siamo abituati. Sembrano bocconcini di pollo, in realtà sono cubetti di non siamo riusciti a capire cosa, un insieme spugnoso, insapore e impossibile da buttare giù, e anche qui, dose per tre. Ravioli con gamberi e vermicelli: stoicamente lo finiamo. Gamberi in agrodolce con verdure: Luca la spunta. Ma si arrende.
Resto sola a combattere e la voglia di urlare e scaraventare tutto a terra si fa sempre più forte. La cameriera passa e ridacchia “stronza!” Dopo aver dato quattro stoiche cucchiaiate alla zuppa direttamente dalla zuppiera sono a un passo dal conato di vomito, non ne posso più. Il nostro tavolo è un vero e proprio campo di battaglia, io ho abbandonato tutte le regole del bon ton, ho mangiato la zuppa direttamente dalla zuppiera (piccoletta, a dire il vero – poteva indurre in confusione) e ho sparpagliato cibo dappertutto. Chiediamo il conto. Voglio uscire e basta.
Una volta varcata la soglia tiro un sospiro di sollievo: il primo che mi dice che la cucina cinese è buona e sana, io lo giuro, lo prendo a schiaffi.
Bo Innovation
Beh, il mio primo post non poteva che trattare un argomento culinario, e quindi eccomi qui per raccontarti una serata “estrema”.
Estrema perché il payoff di “Bo innovation” è “extreme chinese cuisine”, e almeno inizialmente ci aveva un po’ intimoriti – diciamolo, estremo e cinese nella stessa frase non tranquillizzerebbe nessuno – però con un pizzico di coraggio e tanta curiosità abbiamo deciso di provare questa esperienza.
Arriviamo con un po’ di anticipo rispetto alla prenotazione, siamo stati più bravi del previsto a trovare il locale che si trova sull’isola di Hong Kong vicino alla metro di Wan Chai, quindi il maître spiazzato dal nostro anticipo ci sistema in un tavolino di fuori, purtroppo però a fine serata i funghi a gas non riusciranno a contrastare la brezza e “fuggiremo” quanto prima per evitare di congelare completamente.
La carta prevede solamente tre tipi di menù degustazione, scegliamo il “tasting menu” meno articolato, che comprende già sette antipasti, un piatto principale e un paio di dessert.
Iniziamo con il “giardino morto”, a prima vista assomiglia ad una zolla di terremo con su qualche ramoscello (in realtà sono funghi enoki passati all’azoto liquido) e un vermicello fritto, poggiati su un letto di “terra” fatta da polvere di porcini disidratati, che nasconde la zolla di spuma al lime.
Sul sentore di fungo proseguiamo con il secondo assaggio, “Morel” noodle di spugnole con qualche fungo e prosciutto iberico.
Foie gras mui choy è la portata successiva, non chiedetemi cosa voglia dire… Non lo so… Il cameriere sollecitato a parlare più lentamente ha proseguito imperterrito alla stessa velocità, in sostanza è una fetta di foie gras al naturale piastrato con un gelato… Mui choy 😉 non mi ha fatto impazzire ma non sono un amante del foie gras, al contrario Manuela ne era entusiasta.
Il merluzzo invece con una gelatina di zafferano, crema al miso e alghe disidratate mi ha interessato, tutti gli ingredienti insieme hanno creato un’armonia incredibile, in particolare le alghe hanno bilanciato splendidamente il piatto che altrimenti sarebbe stato sovrastato dallo zafferano.
Ma ora veniamo al “molecolar”, il cameriere ci porge un cucchiaio con all’interno una sfera gelatinosa all’aspetto, ci chiede di chiudere gli occhi e assaggiare il boccone in una sola volta, lo assecondiamo incuriositi. Appena schiacciamo la sfera si schiude e rilascia un intingolo meraviglioso, una sorta di brodo molto sapido, credo – ma il cameriere parla sempre più velocemente – che si tratti di una sorta di raviolo tipico cinese servito in brodo ma al contrario, il brodo è il ripieno di questo raviolo molecolare.
Dopo una capasanta quelchel’è… Buona ma dopo il raviolo, mi sembra quasi scontata… Arriva un altro piattino che ci ha colpito molto, il “tomato”, un trittico formato da un pomodorino, una specie di oliva… È un enigmatico marshmallow.
Il pomodorino ci spiegano viene lasciamo 45 minuti in immersione nel pat chun, una specie di aceto zuccherato, ci consigliano di mangiarlo con le mani perché è molto “juicy” e sicuramente con le bacchette lo avrei pataccato sulla camicia…
Il pomodorino è incredibile, da spugna ha assorbito il condimento e lo restituisce quasi come la sfera molecolare di prima. Assaggiamo poi l’oliva fermentata che viene fritta e servita con una misteriosa tapenade, e infine assaggiamo questo curioso marshmallow che racchiude un liquido verde, sembra basilico, il gusto nel complesso ci è familiare, sembra quasi un piatto di casa nostra, se non fosse per le diverse ed inaspettate consistenze.
È il momento dei piatti principali, Manuela ha scelto un pollo long jiang con riso (Acquerello per la cronaca) ed io i gamberi rossi.
Nel complesso ottimi piatti, ma abituati ai fuochi artificiali iniziali siamo rimasti un po’ delusi, però nessuna lamentela.
Proseguiamo con un assaggio di dessert e i petit dim-sum che accompagnano un piccolo the freddo, questi ultimi non ci sono piaciuti particolarmente, un mix dolce, salato e umame che non ha brillato per i nostri gusti.
Due parole con lo chef Alvin Leung e via prima di congelare.
La serata è stata sicuramente da ricordare con piatti e sapori sicuramente inusuali ma allo stesso modo familiari, la cucina cinese estrema si è rivelata una divertente sopresa.
Ora a dormire… Che domani si va da Nobu…