Spalle al muro

Si può sempre scegliere.

Prima che la rabbia esploda, si può scegliere di non assecondarla.

Prima che le parole dette feriscano come spade, si può scegliere di tenere la bocca chiusa.

Prima che la situazione precipiti, si può scegliere di fermarsi e aspettare che la tempesta si plachi.

Prima che la reazione a catena diventi inarrestabile, si può scegliere di non schiacciare il pulsante che la innescherà.

Prima di imboccare una strada a caso, davanti ad un bivio, si può scegliere di aspettare che la nebbia si dissolva, in modo da poter vedere un po’ più lontano, e così potrai decidere che direzione prendere.

Si può scegliere di stare fermi, questa è la scelta più coraggiosa e difficile. Saper aspettare presuppone un grado di fiducia nel tempo e negli altri tale che non tutti riescono a sostenerne il peso. Spesso si cade nella propria debolezza.

Saper aspettare, saper scegliere…

C’è sempre un prima, e c’è sempre un dopo. Ma mentre finché si vive nel “prima” tutto è possibile, modificabile e risolvibile, quando si entra nel “dopo” è tutto più difficile: dopo si è reduci di guerra, feriti e confusi. Da dove si ricomincia? Come si ricomincia? Perché si ricomincia? Nessuno lo sa, non ci sono risposte certe, ma anche in questo caso si sceglie di farlo, per spirito di sopravvivenza, o per ostinazione, o perché una voce laggiù, in fondo all’anima offesa, ci dice che è la cosa giusta da fare.

E allora scegli, ti rimbocchi le maniche e vai avanti, anche se arrendersi sarebbe mille volte più facile. Ma anche qui si tratta di scegliere: scegliere di non arrendersi. Chiami a te tutte le forze che ti sono rimaste, alzi lo sguardo, prendi fiato, e ti rialzi.

Si può sempre scegliere e spesso, la scelta giusta, è la più scomoda e difficile da prendere, perché laddove l’orgoglio sbraita, la ragione impone saggia il suo silenzio.

No!No, e poi ancora no.

Ce lo hanno inculcato nella testa sin da piccole, prima ancora di imparare come si dice “Sì”, ci hanno insegnato che è  brutto dire di “No”, che le brave bambine sono servizievoli, gentili e sempre disponibili a dare una mano. Se dicevi un “No” per ribadire che non avevi nessuna voglia di fare una determianta cosa, come minimo ti beccavi un rimprovero “non ti rivolgi cosi a tua madre”, transitando per castighi più o meno severi, fino ad arrivare al massimo della pena: il temutissimo manrovescio con la mano sinistra, armata di fede e anello di fidanzamento che, ai tempi in cui tuo padre lo regalò a tua madre, con uno stipendio eri ancora mezzo ricco, e allora li regalavano belli grossi: praticamente un tirapugni legalizzato e scintillante.

“Tu di no a me, a TUA MADRE non lo dici”, chissà perchè poi le madri quando sono incazzate parlano in terza persona, e poi “sbammm” partiva il manrovescio assassino, con sfregio da diamante taglio brillante, carati 0.50, colore White VVSI, sulla guancia sinistra. A seguire pianto a dirotto dell’infante e senso di colpa misto terrore di aver sfregiato per sempre l’erede, della madre. Tutto finisce a tarallucci e vino, o meglio, vista la tenera età di uno dei protagonisti, a latte e biscotti. Tranne che a casa mia, dove io caparbia come un mulo, anche se avevo forse cinque anni, guardavo mia madre e, con aria di sfida, così la apostrofavo “non mi hai fatto niente”, detto fatto, in tempo zero secondi arrivava anche il dritto accompagnato dalla minaccia “come ti ho fatto io ti disfo, ne vuoi un altro?”. Devo dare atto a mia madre che in quanto a metodi educativi, non si faceva intimorire da nessuno, i miei capricci che con tutto il mondo hanno sempre funzionato – ero piuttosto brava a improvvisare scene madri di un certo livello artistico, alcune decisamente drammatiche – con mia madre non hanno mai sortito alcun effetto. Quindi con entrambe le guance timbrate dalle affusolate dita di mia madre, mi ritiravo nella mia stanza, rea di aver osato pronunciare la fatidica parola “No”. Il senso di colpa germina qui.

Man mano che cresci e affini  carattere e personalità, i nemici dei tuoi sacrosanti no, affileranno le loro armi, farcendo le loro richieste di complimenti, leccate di culo, fino i più biechi ricatti morali “…se tu mi volessi bene lo faresti”, “se tu ci tenessi a me non ti faresti pregare”, “amore, ma lo fai per me, per tua madre/padre/fratello/fidanzato/amante/marito”. Bisognerebbe essere proprio una brutta persona per non ascoltare una così gentile preghiera, e allora anche se stavi facendo per te la cosa più importante del mondo, anche se piuttosto che fare ciò che ti è stato richiesto preferiresti sfidare Pupo a un giro di roulette russa, puntandoti una rivoltella alla coscia, mestamente cedi e acconsenti. Ingoi il tuo no e fai quanto ti è stato richiesto ma sei scoglionata come un orso bruno svegliato in anticipo dal letargo, fai ciò che devi controvoglia, la cosa ti viene fatta notare e, come l’orso bruno reagisci pure, cominciando a lanciare strali e invettive. Scatenare il litigio del secolo, alle volte, è veramente un attimo.

No, no e poi ancora no. Io ci ho impiegato un discreto numero di sedute dallo psicoterapeuta, ma alla fine ci sono riuscita – ok: quasi riuscita – e quando dico un no, i miei sensi di colpa sembrano non sentirlo, perché non registro nessuna reazione. E quelle volte in cui invece si svegliano e cominciano a corrergli dietro, il mio no riesce a correre più veloce. Ma che fatica, Dio santissimo. Ma è possibile vivere così? Cosa c’è di sbagliato nel diritto di dire di no? E’ un mistero, e vi dirò di più: è un mistero tutto al femminile. Già perché non vedrete mai nessun uomo trafiggersi con le mille spade del senso di colpa; il loro equilibrio – perfetto, tra l’altro – si basa su un sistema elementare di domanda-risposta.

“Amore mio., visto che poi scendi in centro per andare in palestra, passeresti a ritirare  gli abiti pronti in tintoria?”

“No” risponderanno i più sintetici

“No, non ne ho voglia”  diranno i più generosi nel dare spiegazioni

e tu rimani lì, indecisa se arrabbiarti furiosamente o se prendere la macchina e andare tu in lavanderia, e mentre decidi il da farsi, ti metti le scarpe e cerchi le chiavi.

Fine della storia.

E vorresti arrabbiarti e infuriarti e rinfacciargli tutto quello che ti viene in mente, ma non ci riesci, perché alla fine, lui non ti ha fatto nessun torto, ha solo risposto alla domanda che tu gli hai fatto, con la risposta che per lui era la più giusta. Non ha sbagliato niente, che ci piaccia o no. Quelle di noi un po’ più ardimentose che chiederanno spiegazioni in merito, riceveranno la più disarmante delle risposte:

“ma tu non mi hai detto che era urgente, altrimenti ovvio che lo avrei fatto”

e tu resti un’altra volta con il cerino in mano. Anche stavolta ha ragione lui, e stai attenta che ti bruci pure le dita con il cerino.

Ma perchè per noi donne è così difficile imparare a dire di no? Anche quando abbiamo giornate debordanti, fitte di impegni e cose da sbrigare, se qualcuno ci chiede qualcosa, a costo di stramazzare al suolo, di no cerchiamo di non dirlo, anche se ci trilla l’occhio dallo stress. E poi, oltre al danno, intaschiamo pure la beffa, perché quando arriveremo a fine giornata, stanche, sfatte e sull’orlo della crisi di pianto, lui ci guarderà intenerito e:

“ma se ti veniva fuori un casino, bastava dire di no”

e rieccoci un’altra volta con il cerino in mano, le dita bruciacchiate, sopraffatte e sconfitte fa noi stesse. Ve lo dico io quale è la soluzione: addestrarle sin da piccole a disinnescare la bomba del senso di colpa, perché gliene lanceranno tante fra i piedi quando saranno grandi.

Si può dire di no e il mondo non implode su se stesso. Si può non aver voglia di fare una determinata cosa, si può non avere il tempo di farla, si può essere impegnati a fare altro, si può scegliere dei essere pigri ogni tanto, perché se dire di sì è un gesto di gentilezza, dire di no non vuol dire per forza essere maleducati.

E poi per un no ricevuto non è mai morto nessuno, quindi stiamo serene e facciamoci coraggio che siamo ancora in tempo per imparare a vivere come sarebbe giusto vivere: bene.

A’ la guerre comme à a la guerre (tutto al femminile però)

E voi vi siete mai chiesti se un giorno tutti, ma proprio tutti, ci svegliassimo e fossimo le persone più sincere della Terra? Cosa accadrebbe se trovassimo il coraggio e la spontaneità di dire a tutti i nostri conoscenti quello che realmente pensiamo di loro e quello che sappiamo che altri pensano sempre di loro? Se tutti gli omissis, i non detti, i sottintesi, venissero magicamente a galla? Si salvi chi può…

Perché mi è venuto questo pensiero bislacco? Semplicemente perché stamattina, in piscina, mentre mi cambiavo per tornarmene a casa, ho assistito al più feroce degli attacchi verbali, un bel due contro una, senza risparmiare nemmeno un affondo; peccato solo che la “una”, ossia la destinataria di tutto quel livore, non c’era.

Era una sfuriata di questo tipo.

“Ma io la prossima volta glielo dico e la sistemo”

L’amica solidale “e allora io le dico anche che….”

“ahh, sì sì, quando la becco, allora io le dico questo, quello e quest’altro….”

L’amica sempre più solidale “perché poi lo deve capire che deve piantarla”

Fino ad arrivare alla lapidaria conclusione “quando non c’è si sta meglio”

Il chi, il cosa e il quando e soprattutto il perché, non ci è stato concesso saperlo, e soprattutto la destinataria delle invettive non lo saprà mai perché, le due pasionarie che si sono incendiate come la santa Barbara di una base militare appena bombardata, si guarderanno bene dal metterla al corrente circa l’ira funesta che il suo comportamento ha il potere di scatenare in loro.

Misteri dell’universo femminile. Potremmo chiamarle “le battaglie sottintese”, situazioni in cui io so benissimo il motivo per cui ce l’ho con te ma mi guardo bene dal mettertene al corrente,  altrimenti finisce la guerriglia e ci toccherebbe comportarci da adulte affrontando e risolvendo la cosa. Impossibile. In questo modo salterebbe tutta la rete fittissima e indistricabile di alleanze, comunelle, campanilismi, schieramenti occulti, un disastro incalcolabile, roba da far esplodere tutta la rete telefonica e il traffico dati dell’intero pianeta. Meglio di no.

Prima chiediamo l’amicizia, poi la togliamo, e poi la richiediamo e poi siamo come sorelle, poi ci confidiamo anche quante volte respiriamo, poi il meccanismo dell’amore si inceppa e, da “migliore delle migliori delle più magiche delle ma come ho fatto prima senza di te di tutte le amiche che potevo desiderare la mia preferita sei tu” si passa a essere di colpo “public enemy number one”. E nel dubbio, come prima controffensiva, ti blocco il contatto su Facebook. Non ti sfiora nemmeno il sospetto che ti stai comportando da matta bipolare, nemmeno quando racconti a  tuo marito, con una snervante dovizia di particolari, incisi, apri parentesi che poi regolarmente non chiudi, facendo divagazioni funamboliche che a lui esce il sangue dal naso dallo sforzo che fa a seguire il tuo farneticante racconto, e quando arrivi in fondo, con la gola secca e gli occhi fuori dalle orbite, pronta a incassare il tuo legittimo “hai ragione tesoro, la dobbiamo uccidere”, lui ti guarda incredulo e ti dice candidamente “e quindi? dove è il problema? vai a prendere un caffè con lei e chiaritevi”….

E che cavolo: noooo!! E’ evidente che tuo marito è un tanto pessimo quanto inutile alleato in questa lotta fratricida, gli metti il telecomando in una mano e una birra nell’altra e lo lasci lì, lui e i suoi metodi saggi. E’ arrivato il Mahatma Gandhi de noartri, ora è il momento di combattere, non di ragionare e risolvere. Chiami, anzi no, scrivi un messaggio nel gruppo whatsapp delle amiche carbonare, che è un po’ come lanciare una molotov durante una manifestazione pacifica e tranquilla: è subito guerriglia urbana. Ora sì che c’è soddisfazione. Improvvisamente parte una pioggia di aneddoti, manco a dirlo, tutti pessimi e negativi, che hanno come protagonista la super cattiva da combattere.

“eh, ma io lo dicevo che non c’era da fidasi”

“ma vi ho mai raccontato di quella volta in cui…”

“e sì..e già…e quella volta che ha detto, e quella volta che ha pensato, per non parlare di quella volta che ha respirato…”

E alla fine arriva l’insindacabile sentenza: “una stronza con la patente”. Salvo poi farle dei grandi, grandissimi sorrisi quando la stronza con la patente, ignara di tutto il livore della circonda, e soprattutto ignara del perché di tanto odio, si comporta con tutta la setta come se niente fosse. Come ci si comporterebbe fra sani di mente insomma. Ma la parte divertente arriva quando la stronza con la patente, (che chiameremo d’ora in poi SCP per comodità d’uso – n.d.r), subodorando le sordide trame ordite alle sue spalle, chiederà se c’è qualcosa che non va…. Ovviamente va tutto bene, un coro unisono che nemmeno la cara Mariele Ventre è mai riuscita a farlo intonare allo Zecchino d’oro di tutti i tempi “ma, nooo, ma cosa dici, va tutto benissimo tesoro”.

Nel frattempo, nel gruppo whatsapp carbonaro…

“Però sia chiaro, io sono stata zitta, però ce l’avevo sulla punta della lingua quello che penso di lei”

“Guarda, io mio sono masticata la lingua mille volte”

“Ma tanto io prima o poi glielo dico in faccia”

“Ma chi si crede di essere, viene a chiedere se c’è qualcosa che non va….che coraggio”

“E’ proprio senza vergogna”

“Certo che se gliele dobbiamo anche spiegare le cose che fa”

“E’ una stronza falsa”

“Ma sì, lei non è come noi che le cose ce le diciamo in faccia senza paura”

“Noi siamo oneste e sincere, Noi”

“Il punto è che a me quando una persona mi delude, non ho il coraggio di dirglielo in faccia da quanto è grande il dispiacere, e lei, mi ha proprio deluso. Però alla prima occasione la metto alle strette e vedrà contro chi si è messa”

…seeeee lallero…

 

 

Magda vive.

Magda se ne è andata. Si è chiusa in bagno, ha tirato giù il coperchio del water, si è seduta e ha pronunciato la sua frase mito “non ce la faccio piùùùù” e poi ha preso la sua strada. In barba a Furio, ad Antonluca e Antongiulio, al vibrione e alle votazioni che, se non fosse stato per il diritto di voto, lei e la sua bizzarra famiglia non avrebbero mai intrapreso quel viaggio verso Roma che ce l’ha fatta conoscere e amare.

Magda è entrata ufficialmente nella mia vita nel 2011: io e Luca stavamo caricando le valigie in macchina per partire per uno dei nostri viaggi e, mentre  io le butto a caso nel portabagagli,  lui senza proferire verbo, le scarica tutte e le rimette dentro in maniera che tutto sia in perfetto ordine e la macchina  perfettamente assettata. Poi si gira, mi guarda e sorridendo mi apostrofa così :”Magda, per l’amor di Dio fermati! No, non si dispongono i bagagli dentro una macchina così. Eh, tesoro… quando compi questa operazione devi sempre tenere presente di comporre un mosaico, ogni cosa deve combaciare con l’altra, deve essere come un puzzle né più né meno”. Una folgorazione: ma lui è veramente Furio e allora io sono Magda, la SUA Magda. Un brivido mi corre lungo la schiena, rileggo in un lampo tutti i suoi comportamenti bizzarri, metodici e ordinati, e poi di fianco a lui ci sono io: la cazzara innamorata di lui e mi scappa da ridere. Tutto è partito da lì, l’idea di questo blog, della pagina Facebook, dell’ I-pad che mi ha regalato lui con incisa dietro la scritta “Magda tu mi adori?”

E ora Magda non c’è più. Che poi ad essere del tutto onesti, Irina Sanpiter, ha fatto pace con Magda solo di recente. In una sua intervista nel 2011, ha confessato che questo personaggio l’aveva come intrappolata, e nemmeno lei stessa aveva capito subito la potenza che Magda aveva dentro. E in effetti così è. Ogni donna è stata, è, o sarà almeno una volta nella vita Magda, apparentemente debole e sottomessa agli umori del marito, ma in realtà un vero carro armato di femminile pazienza. Volendone fare un aforisma diremmo che “ci vuole una grande forza per apparire deboli”.

Siamo oneste, quante volte messe davanti all’ennesimo bizzarro quanto fastidioso atteggiamento del nostro partner, avremmo voluto che si materializzasse davanti a noi un bagno dentro il quale rinchiuderci e urlare “non ce la faccio piùùù!!”, ma poi, manco a dirlo, il bagno non è comparso, e dopo un paio di minuti necessari per smaltire l’istinto omicida, siamo tornate le dolci fanciulle che hanno fatto innamorare a suo tempo la nostra croce e delizia: Furio. Magda è campionessa mondiale di fedeltà, sogna di scappare con un affascinante musicista sconosciuto incrociato all’autogrill, salvo poi pentirsi di quel fulmineo pensiero, esattamente come noi quando, durante un litigio con il marito millantiamo di andarcene per non tornare mai più, e mentre lui animato da nuove speranze, immagina il suo imminente futuro da scapolo, noi cerchiamo rifugio nell’incavo della sua ascella, e anche se fino a poco fa lo avremmo preso a badilate nella schiena, ora siamo lì al sicuro, nell’unico posto dove vogliamo stare. Anche se la sua ascella è crollata da un pezzo.

Furio che la mette alla prova e Magda che, come un partigiano nascosto nei cespugli, combatte la sua battaglia a colpi  termos latte, termos acqua e limone, succhi di frutta, sandwich al burro, sandwich al prosciutto, sandwich allo stracchino, binocoli, documenti e manopole del gas in posizione orizzontale, ma non molla il colpo, femminile baluardo di una famiglia che la mette alle strette, figli compresi ma lei non cade, al limite alza gli occhi al cielo e sospira, perfettamente padrona di sé. Prova ad abbozzare una fuga, millantando malesseri e stress a vario titolo, ma quando Furio le fa notare che sarebbe un pessimo esempio per i loro figli, rinuncia. Donna, moglie e mamma così rassicurante nel suo completo beige, non sarebbe stato lo stesso se il suo tailleur anni ’70 fosse stato rosso, se i suoi capelli fossero stati lisci. Pensi ad una ipotetica Magda e la immagini così come è: non troppo bella ma  neanche brutta, non magra ma nemmeno rotonda, non appariscente, ma nemmeno una donna che passa inosservata: Magda è esattamente come ci immaginiamo noi stesse nella maggior parte dei  casi.

E’ per questo che Magda siamo noi nella nostra parte più intima e nascosta: la calma apparente in superficie mentre sotto il magma  bollente circola a fiumi, e il colpo di coda è in agguato, così come ci lascia intendere il finale del film: Furio fuori del seggio elettorale con Antongiulio e Antonluca tenuti per mano, ad aspettare invano che Magda esca dalla cabina elettorale. Ma Magda ha tagliato la corda, alla fine ha vinto lei, anche se la stessa Irina alla domanda “Provi ad immaginare un finale per Magda” ha così risposto “Guardi, Magda sarebbe stata con Raoul al massimo una notte e senza fare sesso. Poi sarebbe tornata da Furio e dai figli”. E in fin dei conti è così che ci piace immaginare che siano andate le cose, perché a noi discepole di Magda piace l’equilibrio e l’ordine; davanti al moto di ribellione di sua moglie, Furio si sarebbe ravveduto, e vissero tutti felici e contenti.

Ma Magda questa volta non tornerà. Ci ha lasciato in dote la sua dolcezza, il suo sguardo languido, e tutto il suo bagaglio di emozioni occultato allo sguardo distratto del marito da un sipario di calma apparente. Magda non pretende, Magda non si ribella, Magda non urla, non si arrabbia e non sbatte le porte dietro cui si nasconde per sfogare la sua rabbia. Magda è la brava ragazza che vive dentro di noi, ed è per questo che ci mancherà, anche se per ritrovarla basterà schiacciare “play” e rivedere per la milionesima volta il film che ce l’ha fatta conoscere e amare subito e tantissimo: “Bianco, rosso e verdone”.

R.I.P Irina, alla fine Magda ce l’ha fatta.

 

“La petineuse dei miracoli”

Ma adesso ditemi se questa cosa succede anche a voi. Andate a dormire che avete i capelli apprezzabilmente  in ordine e vi svegliate che, invece, sembra che uno stormo di passeri ci abbia fatto dentro il nido. O anche come se una banda di vandali teppistelli vi ci avesse fatto esplodere dentro un petardo: niente è più come prima. Bisogna rifare taglio, colore, piega, non va più bene niente. Praticamente ci vuole un miracolo, guardandovi allo specchio con aria sconsolata, non vi mettete a piangere solo perchè avete una dignità.

Siete ancora sedute sul water per la prima pipì del mattino e scrivete convulsamente il primo whatsapp alla vostra amica petineuse “situazione tragica, i capelli sono cresciuti di colpo stanotte, ho UN METRO di ricrescita, e anche il taglio è da rifare, e pure la piega. Salvami!” il tutto farcito con faccine piangenti e terrorizzate. Bevuto il caffè, vi rendete conto di essere state delle cafone maledette e non l’avete nemmeno salutata… “Scusa amour, non ti ho nemmeno salutata, ma sono veramente disperata: per andare al lavoro oggi mi metterò un sacchetto del pane in testa” cuoricino-bacio.

I minuti passano e lei non risponde. Lo capite ora cosa vuol dire trovarsi “tra color che son sospesi”? e pensare che quando il vostro professore di letteratura provava a spiegarvi il secondo canto dell’Inferno di Dante, voi sbuffavate annoiate, e ora, invece ci siete dentro fino al collo. Ogni volta che il telefono emette un suono qualsiasi vi lanciate su di lui con furia cieca, ignorate persino i cuori che vi manda vostro marito e i baci delle amiche; niente ora è importante. Niente. Quando finalmente eccolo il suo messaggio, che arriva fra un coro Celeste di angeli che cantano solo per voi: “Ciao! Ti va bene se ti fisso appuntamento per venerdì pomeriggio? Prima non riesco”. Bacio e cuoricino.

“Ma oggi è mercoledì….venerdì è lontanissimo!”lacrime-lacrime-cuore spezzato

“Tesoro lo so, ma prima non ho un buco nemmeno a morire. Ce la puoi fare a resistere” occhiolino-sorriso-bacio

“Però venerdì mi fai una testa tutta nuova. Promettimelo!” Mani giunte-linguaccia-cuore

“Te lo prometto. Ho già in mente un po’ di idee” Occhiolino-sguardo a stellina-fuoco d’artificio

Bene, ora si tratta di resistere fino a venerdì, ed essendo a tutti gli effetti venerdì un giorno ancora lavorativo, vi serve pure una scusa per assentarvi dal lavoro. Il dentista va sempre alla grande, ma anche un “devo accompagnare mia mamma ad una visita” non è male. L’importante è non fornire troppi dettagli, altrimenti vi tradite e scoprono la vostra misera copertura. Ricordate di essere vaghe: nel vago ci sta tutto. I vostri capelli ormai li vivete come un corpo estraneo che non vi appartiene, li odiate e basta, ma venerdì è alle porte, e state per sbarazzarvene.

Venerdì ore 14:30. Posteggiate la macchina in una via secondaria, e come spie in incognito vi avviate furtive (dovreste essere al lavoro, ma state andando dal dentista, ricordate?) verso il salone della vostra amica. Quando siete davanti alla porta vi lanciate dentro come un proiettile impazzito. Avete raggiunto la tana dell’orso – sempre per parlare come spie in incognito. Vi togliete giacca, sciarpa e il sacchetto del pane con cui girate da due giorni. La vostra amica petineuse vi guarda e vi dice “so io cosa fare” e a voi prende il panico, e cominciate a mettere i paletti.

“Io vorrei un taglio tutto nuovo, ma mantenere la lunghezza. vorrei un colore pazzesco, ma senza sembrare una cantante punk, vorrei più volume, ma non troppo, li vorrei mossi ma anche un po’ lisci e con la frangia che però possa diventare ciuffo laterale con un colpo di spazzola. E’ tutto chiaro, no? Sei d’accordo, amour?”

Lei vi sta guardando  con sguardo vitreo, ne vede a mazzi ogni giorno di squinternate come voi, lei non ha più paura di nessuno, da quando fa questo lavoro. Annuisce, ma dentro di sè sta pensando  “mannaggia al destino che mi ha messo questa folle sulla mia strada”. Ma poi vi sorride affabile e con lo stesso piglio di un bravo psichiatra, vi fa accomodare alla poltrona, vi mette la mantellina al collo e sentenzia “Ok. Cominciamo. Faccio IO”.

Un brivido vi corre lungo la schiena. Come vorreste provare quello stesso brivido a casa, con vostro marito che lanciandovi uno sguardo alla “sono un pirata non sono un signore” del caro Julio Iglesias dei tempi migliori, vi sorprende alle spalle con un perentorio  “Faccio Io”. Ma ora l’urgenza è un’altra, non distraiamoci.

La segui con lo sguardo e la vedi armeggiare con mille tubetti, poi torna e comincia a spennellare ciocca dopo ciocca, dopo ciocca, poi ti avvolge la testa dentro alla pellicola come se fossi un cibo da mettere in frigo. Trentacinque minuti di posa, e via. Neanche da dire che in questi minuti in cui non puoi toccarti la testa, ti partirà il prurito del secolo, e pagheresti per avere a disposizione un ferro da maglia, un uncinetto, l’ideale sarebbe la mano uncinata del Capitano Uncino per grattarti come se fosse l’ultima cosa da fare in vita.

L’ansia che ti assale quando suona il contaminuti e nessuno viene a spacchettarti, non si può spiegare, ti immagini i capelli che sotto la pellicola si stanno fondendo e che verranno via con lei, tutti insieme, come lo scalpo che gli Apache facevano ai loro nemici quando li catturavano. Niente paura, lei arriva sempre in tempo. Shampoo, doppio shampoo, balsamo, crema, impacco, siero, gocce miracolose, e chi più ne ha più ne metta: i capelli sono splendenti, il colore è abbagliante. La prima parte del miracolo è fatta.

La petineuse dei miracoli impugna le forbici, zichete, zachete, taglia che è un piacere e te, simulando indifferenza perché le hai detto spavalda che ti fidi ciecamente di lei, cerchi di vedere con la coda dell’occhio quanto sono lunghe le ciocche che sforbiciata dopo sforbiciata, si stanno ammucchiando sul pavimento intorno alla tua poltrona.

“Ehm, non è che stai tagliando un po’ troppo?”

“Ma no guarda, li sto appena sfilando, fidati.”

“Sei sicura?”

“Sì”

“Sicura sicura?”

“Sì”

“Giuramelo che sei sicura”

“Se non la pianti prima ti taglio un orecchio e poi ti raso la testa a zero”

“…..”

e silenzio fu.

Sei in suo potere, non puoi ribellarti, lei ha tutto, forbici, phon, piastra, spazzole, dalla parte del manico. Parte con l’asciugatura e la piega, e tu ti senti come Anastasia in “Cinquanta sfumature di grigio” mentre insieme a quel pervertito di Christian Grey, stava per varcare la stanza dei giochi, sei impaziente, curiosa e anche un po’ timorosa. A te però non ti aspetta nessuna scudisciata sulle chiappe, alla peggio giusto una passata di rasoio sul coppino. Stattene.

Quando lei esordisce con un trionfante “Finito!”  ti senti la più figa della Terra: che bella sensazione. Volteggiando come una ballerina ti metti la giacca, paghi, spargi baci a più non posso come una consumata diva, ti specchi in tutte le vetrine che ci sono fra te e la macchina e, ne sei sicura, stanno tutti guardando te e tu sorridi al mondo piena di luce e nuove consapevolezze, ti senti una donna nuova, diversa e rigenerata.

Entri in casa felice, corri incontro a tuo marito piena d’amore, abbracciandolo e baciandolo con gioia.

“Guarda amore, guarda. Tutta nuova, tutto cambiato. Come sto?”

E lui serafico e stupito per il vostro slancio

“Ma non avevi detto che saresti andata dalla parrucchiera, oggi?”

Lo stai odiando, fortissimamente odiando. E impettita ti allontani.

Fine.

 

Si fa presto a dire Tiramisù.

Prima di cominciare, controllate di avere tutti gli ingredienti e gli strumenti necessari a portata di mano. Ma la cosa più importante è lo stato d’animo con cui vi approcciate a preparare questo dolce, secondo me è perfetto uno stato d’animo gioioso.

Un piccolo sottofondo musicale vi aiuterà non poco, io quando sono sicura che nessuno possa sentire, metto su Spotify le hit italiane degli anni ’80. Sono canzoni considerate (a torto) un po’ tamarre, ma hanno il potere fantastico di riportarmi indietro nel tempo, a quando ero bambina e mia mamma cucinava ascoltando queste canzoni alla radio e le canticchiava. Morale della storia: le conosco praticamente tutte a memoria, e me le canto pure io.

Dunque, ingredienti pronti, strumenti per cucinare pure, musica a bomba, mani pulite. Possiamo cominciare.

Prendete 4 uova e separate i tuorli dagli albumi, possibilmente senza fare disastri, in caso contrario, armatevi di pazienza e togliete con la punta di un coltello, tutti i frammenti di guscio che avete fatto cadere negli albumi già separati. E’ buona norma dare una lavata alle uova prima di cominciare…avete tutti ben presente da dove escono le uova, vero? ecco, appunto.

Mettete i tuorli e 150 grammi di zucchero nel robot da cucina armato di frusta, e date gas. Devono diventare chiari, spumosi e soffici, per essere sicuri del risultato potete fare più e più assaggi con le dita. Siete soli, quindi nessuno può vedervi e giudicarvi male, solo perchè state cantando una canzone dei Pooh, ciucciandovi golosamente le dita coperte di crema. Unite alla crema un po’ di Baileys, prima però verificate con una vigorosa sorsata la qualità del prodotto. Come è? E’ buono? bene, versate pure nelle uova montate con lo zucchero. Quanto alla quantità regolatevi voi, comunque la dose perfetta è “un po’”. Fate andare la frusta ancora qualche istante, ma scalate la marcia, ora ci vuole dolcezza. Assaggiate, se va bene, bevetevi un goccetto di Baileys per premiarvi; se fa schifo bevetelo lo stesso per consolarvi.

Prendete il mascarpone, e con grazia incorporatene 400 gr alla crema di uova. Mi raccomando, ho detto con grazia, quindi evitate di sbatacchiare il cucchiaio pieno di mascarpone sul bordo della ciotola per farlo scendere prima, che smontate la crema e viene tutto una mosceria. Assaggiate. Patty Pravo sta cantando con voi “Pensiero stupendo”, e fidatevi di me, sarà altrettanto stupendo il vostro dolce. Ma cantare mette sete, quindi se avete la gola secca, a naso, a meno che non siate ordinatissimi, potreste avere ancora fra i piedi una bottiglia di Bayleis, usatela, e il mondo comincerà a sorridervi.

E’ arrivato il momento di montare a neve gli albumi, ricordate di aggiungere un pizzico di sale. Montatele bene, mi raccomando, e se proprio vi sentite audaci, fate la prova degli chef: rovesciate la ciotola, se sono montate giuste non dovrebbe accadere niente, se invece non erano ancora a puntino, andate a prendere lo straccio e pulite il pavimento. Ma soprattutto non abbattetevi, andate dal vicino fatevi prestare quattro uova e ricominciate daccapo. Io non ho un vicino, ho una suocera e le suocere, non si sa perchè, ma hanno una riserva pressoché illimitata di uova, e ogni altra cosa di cui io possa aver bisogno, e la cosa è rassicurante.

Ora è arrivato il momento di unire gli albumi montati a neve alla crema. Il mio consiglio è di evitare di rovesciare tutto di botto, come farebbe un carpentiere che impasta del cemento in una betoniera, ma voi sentitevi liberi di fare come preferite, tanto ormai siete mezzi ubriachi, state cantando come aquile in amore (ammesso che le aquile vadano in amore), il mondo vi sorride che è un piacere, e non mi date più retta. Io vi suggerisco comunque di procedere per gradi, e poi mescolate dal basso verso l’alto, per non fare uscire dal composto l’aria che vi siete sbattuti tanto prima per farcela entrare.

Ok, crema pronta. Se avete sete, ormai sapete cosa fare, se avete fame, niente panico: state per maneggiare dei savoiardi, quindi siete salvi. Ho detto savoiardi, e basta: un buon tiramisù non si fa né con i Pavesini e tantomeno con gli Oro Saiwa. Con questi se proprio non potete farne a meno, fateci colazione. Non voglio sentire ragioni. Ci vuole del caffè, tanto caffè, zuccheratelo leggermente e, se a questo punto ne è avanzato, aggiungete due cucchiai di liquore, che gli da uno sprint delizioso.

Prendete la pirofila, evitate di farlo ballando, lo so che resistere alla tentazione di danzare sulle note di Renato Zero che canta “lui chi èèèèèè, come mai lo hai portato con teeeeee” è difficilissimo, soprattutto per voi che siete gonfi di crema al whisky, ma se poi vi cade dalle mani e esplode in mille pezzi, dovrete di nuovo correre dal vicino. Io no, io ho sempre la mia super suocera che ha anche una scorta illimitata di pirofile. Ora possiamo comporre il dolce: prima un piccolo strato di crema, poi i savoiardi bagnati con il caffè, poi uno strato più generoso di crema, e poi di nuovo biscotti bagnati e poi la crema. Il caffè avanzato potete berlo, vi aiuterà ad affrontare le ultime fatiche. Ora armatevi di cacao amaro in polvere e un piccolo setaccino e dateci dentro, dovrete coprire tutto con uno strato bello uniforme; non troppo però, ricordate che il cacao in eccesso, potrà uccidervi quando, strafogandovi di tiramisù, inavvertitamente lo aspirerete. E’ successo a tutti, potrebbe succedere anche a voi, quindi non siate troppo ingordi e mangiatelo piano.

Il tiramisù è pronto, mettetelo in frigo per qualche ora a riposare, voi invece non potete ancora farlo, infatti adesso arriva la parte meno divertente: ripulire la cucina e rimettere tutto a posto, ma a voi che vi frega, state cantando da un’ora, avete sbevazzato, siete felici come pasque: siete invincibili. Quindi fatelo e basta, in men che non si dica, sarà tutto a posto. Ora sì che potete: buttatevi sul divano e godetevi un po’ di relax, assaporate con la fantasia, il momento in cui i vostri amici affonderanno i cucchiaini nella loro porzione di tiramisù, li farete tornare tutti bambini, e sarà bellissimo. Ah, scusatemi, dimenticavo: datevi un’occhiata allo specchio, avete tracce di crema fin sui capelli. Ricordatevi di darvi una sistemata prima che arrivino gli ospiti.

Buona serata, Magda.

Fuori piove.

“Manuuuu, puoi salire in mansarda?”

Salgo in mansarda fra uno sbuffo e l’altro e davanti a me vedo Luca sdraiato sul pavimento a naso in su, con gli occhi spalancati, tipici di chi sta per proporre qualcosa di unico e irrinunciabile.

“sdraiati qui di fianco a me, che ascoltiamo la pioggia”

E così, fra lo stendino per i panni e le scarpe da trekking sempre in disordine , ce ne stiamo lì,  sul pavimento della nostra mansarda a sentire le gocce di pioggia battere sul vetro della finestra sul tetto, ridiamo senza motivo, che se ci pensi sono le risate migliori.

Sono certa che l’amore sia questo. La semplicità di starsene lì, senza fare niente e senza aspettarsi niente, come un gatto sul calorifero, o un cane nella sua cuccia.

E a chi poi si immagina un crescendo di amplessi consumati nudi e crudi nell’intervallo di spazio fa il pavimento e il tetto, dico ancor prima di iniziare: fermatevi subito, che rischiate di rimanere delusi.  E poi in mansarda ci sono i caloriferi chiusi, fa un freddo assassino, io non ci penso nemmeno per un minuto a togliermi anche un solo strato di felpa/pile/flanella.

Ma c’è forse nudità più audace e coraggiosa dell’abbassare completamente le proprie difese? Disarmarsi completamente, buttare tutte le armi sul tavolo, come due duellanti stanchi di combattere, mostrarsi in tutta la nostra vulnerabilità di esseri totalmente imperfetti. L’amore non giudica. L’amore accoglie.

In un mondo dove tutti parlano, l’amore ascolta, con gli occhi spalancati, come un bambino quando gli racconti una storia pazzesca.

L’amore sa essere saggio e lungimirante come un veterano della vita, ma è anche impulsivo e testardo come quegli adolescenti che pensano di conoscere la vita e di poterla insegnare a tutti.

In lontananza si sentono i primi tuoni.

“Avvicinati un po’, dai”

“Ma hai paura?”

“No che non ho paura, ma da più vicini è più bello”

Sopra di noi sta venendo giù il mondo, si direbbe il temporale perfetto, ma qui, protetta dal tetto e da noi due, regna la tranquillità. Vorrei dirti tante cose in momenti come questo, ma poi taccio: perché aggiungere le parole quando non servono? E allora ti guardo, e spero che tu non te ne accorga subito, perché poi sbuffi e mi prendi in giro, mentre io vorrei proprio che nessuno interrompesse questo momento, nemmeno tu.

“Lo senti Manu come è perfetto il ritmo delle gocce che battono sul vetro?”

“Sì, lo sento” affondo il viso nell’incavo del tuo braccio e sto lì, a un passo dal pianto, con il cuore pieno di emozioni e  vorrei trattenerle tutte, per donartele quando saremo stanchi e quando tutto ci sembrerà un po’ piatto e banale.

Poi alzo lo sguardo e incrocio il tuo, e mi rendo conto che la perfezione esiste. La perfezione è questo momento: due sguardi che si incrociano in un preciso istante, come se fossero guidati da una entità misteriosa. Ti abbraccio e ti do un piccolo bacio nel triangolo di pelle fra gli occhi, proprio all’attaccatura del naso, e so che tu lo detesti, ma tant’è è più forte di me.

Fuori ha smesso di piovere. In casa nostra splende il sole.

 

 

La gattara delle anime

La conoscevano un po’ tutti in città, percorrere una strada a piedi in sua compagnia, voleva dire mettersi in animo di fermarsi ogni dieci metri, per un saluto, un sorriso, un rapido scambio di battute, e lei sembrava avere per ognuna di queste anime la parola giusta, o il sorriso o uno sguardo, niente di stereotipato, odiava i saluti in ciclostile “non arrivano al cuore”, diceva. Aveva la capacità di ricordare per ognuno un dettaglio, o un particolare che li faceva sentire unici e speciali.

Accadeva così, semplicemente. Lei viveva lasciando socchiusa la porta della sua vita, e se qualcuno si avvicinava per curiosare un po’ lei, invece che allontanarli, li invitava ad entrare a fare due chiacchiere, a bere un caffè, a mettersi comodi dentro quella vita che lei non aveva paura di condividere. Era come ricevere un abbraccio caldo quando non te lo aspetti.

Per non parlare del suo telefono: era un incessante “tin tin” di notifiche e messaggi. Le persone si fidavano e si confidavano con lei, perché non giudicava: non sentenziava mai. Aveva opinioni e senso critico, questo sì, ma non era mossa da cattiveria, quindi i suoi pareri non scivolavano mai nel giudizio perentorio. E questo piaceva, era rassicurante. Poi per l’amor di Dio, anche a lei piaceva ogni tanto spettegolare un po’, ma chi la conosceva bene sapeva che i segreti veri, quelli raccontati con il cuore in mano, erano al sicuro: quelli sarebbero andati nella tomba con lei. Poveraccia, aveva provato sulla sua pelle, anni addietro, quanto possono fare male le chiacchiere cattive, soprattutto quando non ne sei consapevole, quando ti arrivano come una coltellata e non ti puoi difendere, e da quel momento aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai colpito nessuno alle spalle. Mai.

Era magari poco diplomatica, alle volte eccessivamente diretta e questo sulla distanza poteva crearle qualche problema, perché, proprio come i gatti, le persone, finché dai loro carezze e coccole, se ne stanno lì, fermi  acciambellati a godere di quel piacere tiepido, salvo poi girarsi e graffiare quando la situazione si fa un po’ scomoda, o sono semplicemente stufi di quel contesto. Ma anche questo era un rischio che aveva messo in conto, cioè, le prime volte che era successo c’era rimasta piuttosto male, quella graffiata a tradimento le aveva fatto parecchio male, ma poi, piano piano, aveva imparato a non farci caso più di tanto: un cerotto e via.

E’ per tutte queste ragioni che quando il suo amico, parlando davanti ad una birra, la soprannominò “gattara delle anime”, lei trovò questa definizione pura poesia. Perché era assolutamente vera, solo che non ci aveva mai riflettuto prima. Le persone sono come i gatti, entrano ed escono dalla casa che li ospita, senza promettere niente, ti lasciano godere della loro compagnia per il tempo che loro decidono di regalarti, facendo fusa e lasciando che tu ti prenda cura di loro, salvo poi uscirne e sparire sui tetti, senza preavviso, perché è nella loro natura, che non è per forza cattiva. i gatti sono così, indipendenti per indole e natura.

La gattara porta cibo nelle colonie, ma non saprà se troverà sempre gli stessi o qualche nuovo arrivato, si ferma a fare qualche carezza e poi va via, felice di quel momento che le ha scaldato il cuore. Tornerà qualche giorno dopo, potrebbe trovare tutti i suoi amici a quattro zampe, oppure nemmeno uno; non importa, lei lascerà comunque il cibo per tutti, e poi chissà chi lo mangerà.

E lei faceva proprio così, ma al posto dei gatti, c’erano le anime che incrociava sul suo cammino, alcune poi si fermavano per restare con lei, altre invece altro non erano che meteore che erano temporaneamente entrate nel suo cielo, e tanto velocemente erano entrate, altrettanto velocemente ne erano uscite.

Ma lei non aveva intenzione di cambiare, in barba ai graffi, in barba agli addii inaspettati, in barba agli abbandoni e ai tradimenti, lei aveva deciso che avrebbe vissuto così, con la porta della sua vita appena accostata, pronta ad accogliere quell’anima che, bisognosa di un abbraccio, di una parola gentile, o semplicemente qualcuno che avesse voglia di ascoltarla mentre si sfogava, decideva di entrare. Anche senza bussare.

 

Elogio di una bionda spumeggiante

Io l’ho sempre sostenuto: davanti ad un boccale da litro pieno di fresca birra, puoi raggiungere l’illuminazione, trovare chiavi di lettura per situazioni e persone, puoi elaborare concetti di una finezza inarrivabile, e questo stato di grazia, piaccia o no, non lo puoi raggiungere davanti ad un bicchiere d’acqua, o peggio ancora, davanti ad una centrifuga. Col cavolo: davanti ad una centrifuga puoi al limite compilare la lista della spesa o, se proprio ti senti ardito e ardimentoso, fare un rapido bilancio della tua vita, che sarà inevitabilmente in perdita, mentre se lo stesso bilancio lo avessi fatto davanti ad una bella media gelata, sarebbe stato un trionfo, un tripudio di successi e soddisfazioni.

E’ da qui nasce il primo postulato per questo 2018: birra:centrifugato=gioia di vivere:tentato suicidio (si legge così: birra sta a centrifugato, come la gioia di vivere sta al tentato suicidio). Rifletteteci e poi sappiatemi dire, ma io sono sicura che non avete mai conosciuto un astemio completamente felice, forse giusto qualche mamma in dolce attesa che per il bene della creatura si è sacrificata, salvo poi lanciarsi avidamente sul boccale appena l’erede ha spalancato i suoi occhi sul mondo. E poi si sa: la birra fa latte, quindi va benissimo così.

Baudelaire diceva: chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere. Dio solo sa quanto Baudelaire avesse ragione. Provate a immaginare la situazione: tavolata di amici, i giri di bevute che neanche la goistrina dei cavalli al Luna park riesce a tenere il passo, risate fragorose e poi quel bel chiacchiericcio divertito, voci che si sovrappongono, si accavallano, rumori e parole che si armonizzano in un crescendo kafkiano,  e poi laggiù nell’angolo in silenzio, eccolo: l’astemio. Lui poverino ci prova a tenere il passo, ma non ce la fa, il suo analcolico alla frutta non ha abbastanza combustibile per accendere la sua favella, il suo incedere è lento in mezzo ad un gruppo di fuoriclasse. In una moderna versione del Cenacolo, diciamo Cenacolo 2.0, l’astemio sarebbe Giuda, e non serve aggiungere altro. Se te con i tuoi amici al tavolo foste un’orchestra sinfonica, l’astemio sarebbe lo strumento fuori tempo e pure un po’ stonato. Così come se tutti insieme foste un outfit perfetto, l’astemio sarebbe il pezzo che madame Chanel invitava a togliere prima di uscire per essere veramente eleganti.

E’ davanti ad un boccale di birra che ho visto nascere amori, davanti ad una mezza minerale cosa vuoi che nasca? Un cespo di lattuga forse, o un gambo di sedano, una carota, se proprio siamo fortunati… ma se pensate di accendere il fuoco della passione con un succo d’ananas, auguri, cari miei, il prossimo passo è il brodo di pollo tiepido, che vi sta aspettando proprio dietro l’angolo.

Con questo non voglio certo dirvi di ubriacarvi come asini, per l’amor di Dio no, dai, però saper bere bene, secondo me, è sicuramente indice di sapersi godere la vita nel modo giusto: non può esistere una cena goduriosa se sulla tavola imbandita si porta solo la bottiglia dell’acqua, e a voi che mangiate la pizza annegandola senza pietà in un fiume di acqua, dovrebbero farvela pagare il doppio. Ci sarà pure un perché se si dice che fare un brindisi con l’acqua porta sfortuna, vi pare? E poi vuoi mettere il gioioso “cin cin” dei calici che si toccano durante un brindisi ad una festa? ma anche il solido “clanck” che fanno due boccali è altrettanto bello, sa di allegria, di amicizia, di potersi finalmente lasciare andare dopo una giornata di lavoro.

E l’astemio è sempre là, nel suo angolo, nel suo cono d’ombra, come una valigia dimenticata a terra mentre l’aereo decolla, è il fuoco d’artificio lasciato fuori all’umido e che quindi farà cilecca spegnendosi in un sordo “Poff”, mentre tutt’intorno è un tripudio di colori, luci e suoni. L’astemio è colui che ha sempre mangiato lo stesso gusto di gelato, ignorando che ce ne sono mille altri buonissimi. L’astemio ha bisogno di essere liberato e redento.

Quindi fra i buoni propositi per questo nuovo anno ci mettiamo questo: libera un astemio, corri a offrirgli una birra.

Alla vostra salute! Buon anno da Magda.

C’era una volta un cane magico…

Un gesto semplice, quotidiano, fatto senza pensare, come avvolgere una crosta di parmigiano nella pellicola per rimetterla in frigo, ed ecco prepotente, la mancanza travolgermi. Sarà che oggi è una piovigginosa e umida serata di novembre, sarà quell’atmosfera fatta di zuppa di legumi calda, felponi casalinghi un po’ sformati, ma stasera Tabata, più che in altre sere, da cinque mesi a questa parte, manca.

Non ho scritto una parola di quel giorno, alcuni forse se lo aspettavano, ma non l’ho fatto, non mi venivano le parole, come un fiume troppo impetuoso che fatica a scorrere nel suo letto, così erano (sono?) i miei sentimenti pensando a Tabata. “Il dolore per diventare melodia, ha bisogno di tempo” credo che lo stesso concetto si possa riferire anche per la parola scritta: c’è voluto tempo per mettere in ordine tutte le parole che mi vengono in mente se penso al 26 di maggio, il giorno più doloroso e tuttavia più sublime del mio lungo percorso con Tabata.

Ma ora posso farlo, ora ci riesco. Ora il dolore sordo è diventato una favola bella; c’è voluto tempo, ma alla fine ci sono riuscita. Un periodo difficile, a marzo abbiamo scoperto che Tabata era gravemente malata, un brutto tumore invasivo e aggressivo si è insinuato nel nostro ménage fatto di amore e coccole e, volenti o nolenti, abbiamo dovuto accoglierlo, decidendo che ogni giorno in più era un regalo. Non è stato facile stare a guardare il nostro adorato cagnolone accusare ogni singolo colpo che la malattia le infieriva, ma lei da super cane generoso quale era, ci regalava comunque il suo sguardo felice, la sua coda a frullino, il suo desiderio di esserci, anche quando alzarsi per venirci a fare le feste, era uno sforzo che faticava a nascondere. Un lento declino, oserei dire dolce, senza strappi, un piccolo dettaglio in meno ogni giorno in modo da non togliere niente alla nostra quotidianità in maniera brutale, l’abbiamo accompagnata giorno dopo giorno, assecondando il suo essere, dalla passeggiata via via più breve, alla sua pappa via via più morbida e facile  da mangiare, alla sua cuccia, sempre più imbottita, perché Tabata non doveva soffrire, nemmeno un giorno, nemmeno un minuto. Nemmeno mai. Non se lo meritava, e questa era la promessa che le ho fatto, e che sono riuscita a mantenere.

Si dice che il tuo cane ti faccia capire quando è il momento di lasciarlo andare, io non avevo idea di cosa significasse questa cosa, fino a quella mattina…

Una notte difficile, fatta di risvegli continui, di sospiri, di sangue. Al mattino siamo provati, Tabata la più stanca di tutti, sdraiata su un fianco, il suo respiro è affannato, le esce un po’ di sangue dalla bocca. Mi siedo di fianco a lei, gli occhi negli occhi e le domando – ma lo sto chiedendo a lei o a me? – “Dimmi la verità, Tabata sei stanca?” lei alza la testa e me la appoggia sulla gamba e fa un lunghissimo sospiro. Eccola la risposta di cui avevo tanto sentito parlare ma che non riuscivo a comprendere a fondo fino a quel momento. Le ore dopo sono state un susseguirsi di telefonate, di accordi con il veterinario, di cuori spezzati ma estremamente lucidi, di carezze, di baci, di fazzoletti che non ci sono mai quando servono.

Tabata se n’è andata con la stessa delicata dolcezza con cui è entrata nella mia vita, l’ultima carezza che le ho fatto è riuscita a raccogliere il suo ultimo respiro, ha chiuso i suoi occhi guardando i miei che le sorridevano, così come le hanno sempre sorriso in tutti questi anni. Siamo riusciti a chiudere il suo cerchio lasciando fuori il dolore. Abbiamo mantenuto la promessa, ed è per questo che anche se con dolore, non c’è rimpianto. Ed è per questo che la sua è una favola bella.

E proprio come nelle favole belle, il lieto fine esiste. Esiste perché Tabata continua a farci sorridere ogni volta che ci succede qualcosa di strambo, ogni volta che incrociamo un altro cane per strada, ogni volta che scherziamo sul fatto che lei vive ancora con noi, nella sua piccola scatoletta di legno con seduto sopra il suo pupazzo, perché io, colpevolmente, non ho mai trovato il momento giusto per liberarla consegnandola al suo habitat preferito: il mare. Lo faremo, lo so, arriverà quel giorno in cui ci sveglieremo e non ci sarà bisogno di aggiungere altro, aspetteremo l’ora del tramonto poi prenderemo le biciclette e raggiungeremo una spiaggia un po’ defilata. Una volta lì le sue ceneri si fonderanno con il mare, abbiamo tenuto il suo osso di gomma: consegneremo al mare anche lui, così lei giocherà con i delfini, con le sirene, con tutte le creature marine che avranno la fortuna incontrarla, felice, gioiosa…viva. E noi ci berremo una birra pensando a lei, e a tutto quello che lei ha fatto per noi.

Viva come vivo è il suo ricordo che prepotente si è risvegliato stasera per colpa (o merito) di una crosta di formaggio che fino all’anno scorso conservavamo per lei, perché la facevano impazzire. Cinque mesi ci sono voluti per trasformare la sua mancanza in una melodia che alleviasse il cuore piuttosto che affliggerlo. Perché Tabata era ed è questo: una musica lieve, una rima buffa, il sole disegnato da un bambino, la gioia che generosamente ci ha donato che, come un filone aureo sembra non esaurirsi.

Tabata era Tabata. Punto, non c’è molto altro da aggiungere. Mia nipote Alice, da piccina diceva che Tabata era un cane magico. Forse come sempre accade, i bambini vedono un po’ più distante di noi adulti. E hanno ragione loro.