C’era una volta un cane magico…

Un gesto semplice, quotidiano, fatto senza pensare, come avvolgere una crosta di parmigiano nella pellicola per rimetterla in frigo, ed ecco prepotente, la mancanza travolgermi. Sarà che oggi è una piovigginosa e umida serata di novembre, sarà quell’atmosfera fatta di zuppa di legumi calda, felponi casalinghi un po’ sformati, ma stasera Tabata, più che in altre sere, da cinque mesi a questa parte, manca.

Non ho scritto una parola di quel giorno, alcuni forse se lo aspettavano, ma non l’ho fatto, non mi venivano le parole, come un fiume troppo impetuoso che fatica a scorrere nel suo letto, così erano (sono?) i miei sentimenti pensando a Tabata. “Il dolore per diventare melodia, ha bisogno di tempo” credo che lo stesso concetto si possa riferire anche per la parola scritta: c’è voluto tempo per mettere in ordine tutte le parole che mi vengono in mente se penso al 26 di maggio, il giorno più doloroso e tuttavia più sublime del mio lungo percorso con Tabata.

Ma ora posso farlo, ora ci riesco. Ora il dolore sordo è diventato una favola bella; c’è voluto tempo, ma alla fine ci sono riuscita. Un periodo difficile, a marzo abbiamo scoperto che Tabata era gravemente malata, un brutto tumore invasivo e aggressivo si è insinuato nel nostro ménage fatto di amore e coccole e, volenti o nolenti, abbiamo dovuto accoglierlo, decidendo che ogni giorno in più era un regalo. Non è stato facile stare a guardare il nostro adorato cagnolone accusare ogni singolo colpo che la malattia le infieriva, ma lei da super cane generoso quale era, ci regalava comunque il suo sguardo felice, la sua coda a frullino, il suo desiderio di esserci, anche quando alzarsi per venirci a fare le feste, era uno sforzo che faticava a nascondere. Un lento declino, oserei dire dolce, senza strappi, un piccolo dettaglio in meno ogni giorno in modo da non togliere niente alla nostra quotidianità in maniera brutale, l’abbiamo accompagnata giorno dopo giorno, assecondando il suo essere, dalla passeggiata via via più breve, alla sua pappa via via più morbida e facile  da mangiare, alla sua cuccia, sempre più imbottita, perché Tabata non doveva soffrire, nemmeno un giorno, nemmeno un minuto. Nemmeno mai. Non se lo meritava, e questa era la promessa che le ho fatto, e che sono riuscita a mantenere.

Si dice che il tuo cane ti faccia capire quando è il momento di lasciarlo andare, io non avevo idea di cosa significasse questa cosa, fino a quella mattina…

Una notte difficile, fatta di risvegli continui, di sospiri, di sangue. Al mattino siamo provati, Tabata la più stanca di tutti, sdraiata su un fianco, il suo respiro è affannato, le esce un po’ di sangue dalla bocca. Mi siedo di fianco a lei, gli occhi negli occhi e le domando – ma lo sto chiedendo a lei o a me? – “Dimmi la verità, Tabata sei stanca?” lei alza la testa e me la appoggia sulla gamba e fa un lunghissimo sospiro. Eccola la risposta di cui avevo tanto sentito parlare ma che non riuscivo a comprendere a fondo fino a quel momento. Le ore dopo sono state un susseguirsi di telefonate, di accordi con il veterinario, di cuori spezzati ma estremamente lucidi, di carezze, di baci, di fazzoletti che non ci sono mai quando servono.

Tabata se n’è andata con la stessa delicata dolcezza con cui è entrata nella mia vita, l’ultima carezza che le ho fatto è riuscita a raccogliere il suo ultimo respiro, ha chiuso i suoi occhi guardando i miei che le sorridevano, così come le hanno sempre sorriso in tutti questi anni. Siamo riusciti a chiudere il suo cerchio lasciando fuori il dolore. Abbiamo mantenuto la promessa, ed è per questo che anche se con dolore, non c’è rimpianto. Ed è per questo che la sua è una favola bella.

E proprio come nelle favole belle, il lieto fine esiste. Esiste perché Tabata continua a farci sorridere ogni volta che ci succede qualcosa di strambo, ogni volta che incrociamo un altro cane per strada, ogni volta che scherziamo sul fatto che lei vive ancora con noi, nella sua piccola scatoletta di legno con seduto sopra il suo pupazzo, perché io, colpevolmente, non ho mai trovato il momento giusto per liberarla consegnandola al suo habitat preferito: il mare. Lo faremo, lo so, arriverà quel giorno in cui ci sveglieremo e non ci sarà bisogno di aggiungere altro, aspetteremo l’ora del tramonto poi prenderemo le biciclette e raggiungeremo una spiaggia un po’ defilata. Una volta lì le sue ceneri si fonderanno con il mare, abbiamo tenuto il suo osso di gomma: consegneremo al mare anche lui, così lei giocherà con i delfini, con le sirene, con tutte le creature marine che avranno la fortuna incontrarla, felice, gioiosa…viva. E noi ci berremo una birra pensando a lei, e a tutto quello che lei ha fatto per noi.

Viva come vivo è il suo ricordo che prepotente si è risvegliato stasera per colpa (o merito) di una crosta di formaggio che fino all’anno scorso conservavamo per lei, perché la facevano impazzire. Cinque mesi ci sono voluti per trasformare la sua mancanza in una melodia che alleviasse il cuore piuttosto che affliggerlo. Perché Tabata era ed è questo: una musica lieve, una rima buffa, il sole disegnato da un bambino, la gioia che generosamente ci ha donato che, come un filone aureo sembra non esaurirsi.

Tabata era Tabata. Punto, non c’è molto altro da aggiungere. Mia nipote Alice, da piccina diceva che Tabata era un cane magico. Forse come sempre accade, i bambini vedono un po’ più distante di noi adulti. E hanno ragione loro.

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“Tutti sul Monte Penna” (trent’anni dopo)

…allunghiamo un secondo questa cinghietta qua, fissiamo bene questa, clicchete, clacchete, et voilà: siamo pronti per partire.
Monte Penna arriviamo.
Formazione delle grandi occasioni: Manu Luca e Tabata, tutti e tre con il proprio zainetto, io il mio Eastpack fucsia, Luca sobriamente in grigio, e Tabata con una sella da cani con tasche nere con disegnati tanti piccoli ossetti. Un amore, vale la pena perdersi nei boschi solo per guardare lei e quanto è deliziosa. Perplessa, ma deliziosa.
Secondo me da Arcaplanet quando siamo usciti orgogliosi dei nostri acquisti, hanno stappato una bottiglia: quando mai gli ricapitano due idioti che in un colpo solo comprano: uno zainetto da cane, una piscinetta per il suddetto (che scopriremo poi, ha paura di entrarci), elegante guinzaglio beige con applicata madaglietta fucsia a forma di cuore e le crocchette ma quelle light, da cane adulto, consigliate dal veterinario che, a conti fatti, ci costerebbe meno nutrirla a filetto….
Ma soprassediamo, anche se le nostre incursioni da Arcaplanet meriterebbero più spazio.
Del Monte Penna si diceva.
In preda a una specie di trance alpina, la sera prima ho preparato gli zaini, ignorando il fatto che il Penna è poco più alto di un pandoro, ho messo dentro: pantaloni impermeabili (potrebbe piovere), giacca imbottita (potrebbe precipitare la temperatura fino allo zero), spray anti zanzare, burro cacao, acqua come se partissimo per la traversata del deserto (ignorando il fatto che da quelle parti è tutto un tripudio di fontane e fontanelle), macchina fotografica, binocolo, un pile per Luca (che come tutti sanno gira in maniche corte anche d’inverno e quindi totalmente inutile) e calze di ricambio per me, polo di scorta per lui. Non chiedetemi il perché di questo delirio, in compenso, per non smentirmi: scorte alimentari ZERO. Giusto qualche fetta biscottata, le crocchette della Tabata, e una piccola pizzetta avanzata da una voglia improvvisa venuta a Luca lungo la strada.
Carichi di un notevole ottimismo si parte.
Prima tappa: farmacia.
Io soffro il mal d’auto, e quindi mi doto di ogni possibile rimedio, stavolta si va sul classico con la Xamamina, però, quasi quasi….mi avvicino alla farmacista e sottovoce le chiedo se ha i braccialetti magnetici.
Sottovoce perché ho paura che Luca possa sentire e darmi una botta di credulona, paura infondata visto e considerato che è chiuso in macchina con l’aria condizionata al massimo, la radio accesa, un cane, due pizzette e coca cola: in questo momento lui non sa che io esisto, è nel suo Nirvana privato, un uomo felice. Li compro e mi avvio verso la macchina.
Cintura allacciata, pronti partenza via.
Luca si troverà come compagna di viaggio una strana con due polsini con all’interno due pallette che devono essere posizionate in un preciso punto del polso affinché possano stimolare il punto preciso che blocca la nausea. A trovarlo il punto: palmo rivolto in alto, il mignolo deve scivolare sotto la mano, e anulare, medio e indice sono appoggiati sul polso, proprio a un passo da dove finisce l’indice, ecco il punto magico. Ci piazzo sopra la pallina (che ogni tanto dovrò ricordarmi di strufugnare) e, a questo punto, io e il mal d’auto non abbiamo più niente da dirci. Maledetto compagno di avventura per tanti troppi anni….ma ora ho i miei super braccialetti, non mi avrai più. Mai più.
E così mentre io mi godo il mio non-mal-d’auto, alla guida, un galvanizzato Luca per l”impresa portata a termine il giorno prima (è andato a Santo Stefano in bicicletta:un miliardo di chilometri in salita), mi fa la radiocronaca in diretta di ogni singola curva, ogni salita, ogni panorama, ogni-qualsiasi-cosa che ha percorso, e per rendere il tutto più colorito, lo fa imitando la voce di Aldo Rock, un tipo che ogni tanto interviene a Radio Deejay e parla di triatlon, maratone, e altre cose che io sudo e fatico solo a sentirne parlare. La Tabata, comoda nel suo sedile posteriore, si gode il viaggio insieme a noi.
Comunque sappiate che i bracciali magnetici funzionano alla grandissima, quando arriviamo a Santo Stefano sono fresca come una rosa, allegra e baldanzosa, in altre circostanze sono arrivata bianca come uno straccio, a un passo dal pianto isterico e con un unico desiderio: morire subito.
Piccolo spuntino, un saluto ad alcuni amici, pit-stop canino, e via: che l’avventura inizi.
Luca mi chiede se conosco la strada.
Certo che la conosco, ci sono stata mille volte sul Penna…trent’anni fa, ma per sicurezza mi sono fatta spiegare la strada da mia mamma che ai tempi aveva più o meno la mia età attuale, e quindi i suoi sono ricordi attendibili. Ma in tutta onestà voi vi fidereste a chiedere indicazioni a una persona il cui senso dell’orientamento è prossimo allo zero assoluto, e rischia di perdersi anche dentro casa sua?
Ma soprattutto vi fidereste di chiedere indicazioni su un sentiero alpino a una strana stranissima che le arrampicate sul Penna le faceva con la gonna di jeans a tubo, un vezzoso foulard messo a fascia in testa e le zeppe alte un palmo? Leggenda narra che io in quelle circostanze la ripudiassi, prendendo per mano un’amica di famiglia, con abiti consoni alla situazione, e esordiendo con una frase così: “ecco tu sei la mia mamma di scalata”. Ridevano tutti divertiti, una bambina adorabile e simpatica…a me l’unica cosa che mi interessava era riportare la pelle a casa, e anche se la mia mamma era super trendy e ultra gnocca, non mi garantiva il risultato. E io non sono il tipo di persona che corre rischi inutili, nè ora, nè allora.
E così quando al primo bivio, alla domanda “da che parte giro?, Luca si è sentito rispondere dalla sottoscritta “bhò, prova di qua”, deve aver capito all’istante che la giornata si prospettava essere indimenticabile.

Fine prima parte.

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Metti un sabato di trekking fra i boschi e la nebbia…

Io non capisco una cosa: perché quando a Luca vengono le idee più bizzarre trova sempre un folto gruppetto di amici che invece di ignorarlo e passare oltre, gli danno retta? Pazienza io che sono legata a lui nella buona e cattiva sorte, e quindi non ho scelta, ma loro che possono mettersi in salvo, perché non lo fanno?
Questa è la premessa. Ora i fatti.
Prendete un tranquillo sabato di metà giugno, che si fa per renderlo degno di nota? Si decide di andare al Santuario di Montallegro, sulle alture dietro a Rapallo. Wow, che bello, grande idea!
Sì, ma a piedi.
Un minuto di silenzio.
Perché io in teoria avrei avuto la giustificazione, lavoravo quel giorno, ma quando ho visto il messaggio mandato ai nostri amici su Messanger, invece di starmene zitta, muta e ferma, ho scritto di getto “veniamo anche io e la Tabata, mi cambio il turno e siamo a posto”. Luca mi ha così risposto “guarda che non ce la fate”, a quel punto è diventata una questione di orgoglio: io DOVEVO andare a Montallegro a piedi, fosse anche stata l’ultima cosa che facevo da viva, e la Tabata doveva venire con me, conscia del fatto che lei dall’alto dei suoi 10 anni ce l’avrebbe fatta benissimo, io, boh, speriamo, vedremo, chissà…
Un problema si è posto subito, vogliamo forse chiamarlo segno del destino?: io non ho zainetti da scampagnata; borse, borsine, borsette quante ne volete, ma zaini no, ero carente. Ero perché il mio amore ha provveduto subito comprandomi il mio primo Eastpak (a quarant’anni suonati, un record di cui vado anche un po’ fiera, perché sarà comodo, funzionale e indistruttibile, ma bello no, il bello è un’altra cosa). Lo ha scelto in un bel fucsia segnaletico, così butta caso che finisco in una scarpata, trovare il corpo sarà più facile, sicuramente si vedrà anche dall’alto, casomai servisse l’elicottero vista l’impervietà del sentiero. Quando si dice “pensiero positivo”…
Sveglia alle 7 in punto, zainetti preparati la sera prima, colazione e abbigliamento da esperti camminatori. Un unico dubbio mi tormenta ancora adesso: perché, avendo a disposizione due paia di scarpe da trekking super professional comprate per il viaggio di nozze, quindi praticamente nuove, abbiamo optato per indossare delle scivolosissime scarpe da ginnastica? O meglio, perché quando mi son venute in mente le scarpe da trekking, ho chiesto un parere a Luca? Potevo ignorarlo? E invece niente da fare, mi sono fidata ciecamente di lui, e le mie scarpe The North Face le rimpiangerò in più di un’occasione.
Tabata felice e fremente, io speranzosa di farcela, Luca in piena metamorfosi, sta diventando Furio a tutti gli effetti. La nostra combriccola è così composta: noi tre, La Faraona, La Laurina, Enrico, e La Maestra Barbara.
E via, si parte all’avventura, accompagnati da un clima a dir poco ostile, infatti più saliamo più aumenta la foschia, il sentiero che doveva per larghi tratti essere panoramico, ce lo dobbiamo immaginare, infatti aldilà degli alberi regna il nulla più totale.
Arrivo previsto a destinazione per le ore 12:00. Tabata dà subito prova del suo vigore nominandosi capo squadra, infatti è sempre saldamente in testa al gruppo, noi umani la seguiamo annaspando per alcuni tratti in evidente debito di ossigeno, ma con l’umore bello alto, umore che non cede nemmeno quando mi concedo qualche bel scivolone per terra, seguita poi a giro dalle altre fanciulle, ma niente di che, siamo ancora tra voi.
Arrivati al Passo dell’Anchetta il sorriso si spegne un attimo sui nostri bei faccini dalle guance rosse per la fatica: giusto il tempo di prendere coscienza del fatto che ci aspetta una salita molto ripida e dissestata, non a caso detta “il tagliere”, a seguire un sentiero in discesa costellato di pietre scivolose (la Manu cadde qui la prima volta), per finire con un sentierino largo dieci centimetri, forse quindici, ai lati costellato di rovi e ragnatele.
Siamo sporchi, bagnati, pieni di graffi e un po’ affaticati, questo per quel che riguarda noi umani; Tabata è scodinzolante, allegra e baldanzosa, quando, quasi all’improvviso, spunta dalla nebbia, lui, il Santuario, la nostra meta. Missione compiuta.
In un momento di estasi religiosa decido di entrare in chiesa, mi metto giusto la giacca per essere un poco più decente vista la sacralità del luogo…Ma come mai sento questo rumore di chiavistelli e lucchetti? Mi giro verso l’ingresso e noto che è inequivocabilmente chiuso. Grazie signora custode che ci hai visto arrivare, sette anime spuntate dal nulla nella nebbia, e che hai sentito quello che avevo intenzione di fare, e in pieno stile “torta di riso finita” mi hai chiuso la porta sul naso, grazie grazie grazie!
Quando si dice la carità cristiana, lo spirito di fratellanza, “aprite le porte a Cristo e al suo gregge”….Ma non è finita quì.
Decidiamo di tornare in funivia, andiamo a fare i biglietti e il personale addetto praticamente ci ride in faccia: “la funivia non va a causa delle condizioni metereologiche precarie”, ma è solo un pochino di foschia…Gentilmente -si fa per dire- ci indicano il sentiero a scendere, gambe in spalla e andare.
Un’ora di cammino su dei ciottoli che fanno un male alle piante dei piedi quasi inimmaginabile (avessi le mie scarpe tecniche, sai che goduria, e invece a ogni passo è un santo che cade dal calendario), se poi ci aggiungiamo che a causa della pendenza le punte delle dita prendono a testate la punta delle scarpe, i dolorini sparsi a causa della caduta di prima, due cani arrabbiatissimi che sembrava ci volessero mangiare vivi a tutti e la Tabata che rispondeva colpo su colpo, La Faraona che a momenti ci finisce veramente giù dal sentiero rischiando un volo di qualche metro e di massacrare delle piante di zucchine novelle, seguita a ruota dalla Maestra Scaroni, però i giudici hanno decretato che la sua caduta per quanto meno rocambolesca fosse, era decisamente più elegante; quindi è lei la vincitrice del trofeo “caduta del giorno”.
Mi è toccato anche fare pipì “en plein air” perché me la sono inutilmente tenuta per non perdere la funivia, e non avevo altra scelta, se non quella di un potenziale blocco renale, quindi o così o così, mentre mio marito che dovrebbe farmi da scudo umano, mi guarda e sghignazza, l’infame…
Per non farsi mancare niente, abbiamo scoperto nostro malgrado che davanti a ben tre bivi, nonostante avessimo seguito pedissequamente le indicazioni dei passanti, siamo riusciti a sbagliare strada e a farci ridere dietro dagli abitanti della zona, oltre ad allungare la via del ritorno.
Ma alla fine l’abbiamo spuntata noi, certo, sul treno che ci riportava a Chiavari la gente ci guardava con il ribrezzo dipinto in volto da tanto eravamo sporchi, certo, cominciavamo a sentire ogni tipo di dolore fisico, certo, puzzavamo come cimici pestate, anche se Luca spruzzava del deodorante a destra e a manca, peggiorando per quanto impossibile potesse sembrare, la situazione.
Però è stato bello, abbiamo chiacchierato e riso molto, abbiamo condiviso cibo e bevande nel pieno rispetto dello “stile del pellegrino”, al nostro passaggio la gente ci salutava, anche perché con ogni probabilità non avranno visto nessun altro oltre a noi. Abbiamo immaginato bellissimi paesaggi perché non si vedeva niente oltre al nostro naso, insomma una bella dieci chilometri in mezzo al bosco che se fosse un po’ più curato sarebbe sicuramente ancora più bella, fra salite discese e pezzi in piano che erano un vero toccasana per le gambe.
Il giorno dopo quando mi sono svegliata mi sarei sparata, ci ho messo tre giorni a riprendermi, anche lavarmi i denti era dolorosissimo, sedermi una tortura e le braccia erano costellate da graffi e morsicature di insetti, mi sono spuntati lividi un po’ ovunque, camminavo come Robocop perché avevo le gambe dure, mi facevano male entrambe le caviglie e ogni singolo movimento mi è costato uno sforzo sovrumano: ma lo rifarei subito.
Quasi subito…
Vabbè no dai, subito subito no…
Settimana prossima…
Dieci giorni…
E ma poi fa troppo caldo….
Ok, poi ci mettiamo d’accordo…
“Tim, informazione gratuita: l’utente da voi selezionato non è al momento raggiungibile, o potrebbe avere il terminale spento”
TUTUTUTUTUTUTUTUTUT….