Gerusalemme, città da veder con gli occhi e con il cuore

Della crociera si diceva, prima che mi travolgesse un’onda anomala di romanticheria.

Sono rimasti tragicamente indietro due dei quattro post che vi avevo promesso, quindi mettiamoci sotto.
Il giro che fa la Costa Pacifica si concentra soprattutto su uno scalo in particolare Ashtod, porto da cui raggiungeremo Gerusalemme, città affascinante sotto molteplici aspetti, vi piace la storia contemporanea? lì potete fare il pieno, vi piace la cultura religiosa? lì ne avrete da togliervi la voglia, vi piace semplicemente vedere un posto straordinario? questo è il posto che fa per voi.
Ma, c’è sempre un ma. Se decidete di andare all’avventura da soli, credo che dobbiate fare una serie di visti e permessi tale che, con ogni probabilità, vi passerà la voglia prima di partire, se invece come noi due, decide di farvi scarrozzare pigramente da una nave dotata di ogni confort, sappiate che, come più ci si avvicina alle coste di Israele, più il vostro status di crocerista italiano in vacanza perde miseramente di importanza. Esercito a bordo per controllare tutti i passeggeri “face to face”, e tutti vuol dire circa 2800 persone che suddivise in gruppi, sfileranno davanti a loro i quali, passaporto alla mano (che avrete consegnato al personale di bordo al momento dell’imbarco) controlleranno che voi siete proprio voi, e badate a non fare troppo gli spiritosi, a non assumere un atteggiamento di sufficienza o scocciato, perché se si indispettiscono, non vi rilasciano il visto per sbarcare e voi ve ne rimanete a bordo a frollare dentro la piscina. E mettetevi il cuore in pace, non si discute con loro.
Ma non è mica finita qui. Avete finalmente ottenuto il visto, arriva il momento di sbarcare, praticamente la popolazione di una cittadina intera si prepara a scendere, ad attenderci decine e decine di pullman, io ne ho contati 27, poi ho perso il conto, tutti ci dirigiamo verso il ponte , il ponte stabilito per lo sbarco, e ad aspettarci ci sono altri militari dell’esercito che, stavolta a campione, controllano che, per dire, non abbiate mitra, esplosivi, bombe a mano e amenità affini nascoste nella custodia della macchina fotografica. Ovviamente noi siamo finiti nel gruppo degli eletti, circa una cinquantina di persone, a cui veniva aperto lo zaino o la borsa e veniva chiesto di passare sotto un metaldetector ma con una calma veramente indisponente, ma ovviamente zitti e mosca, vietato lamentarsi. La macchina fotografica di Luca è stata passata ai raggi X per ben tre volte, probabilmente prima hanno verificato che non facesse “tictac tictac”, poi che non contenesse armi chimiche, e poi non lo, so solo che io sono scesa dalla nave che avevo la carogna imbufalita sulla schiena. Sul nostro pullman siamo arrivati per ultimi, accolti dagli sguardi scocciati degli altri passeggeri, non c’è che dire, cominciamo proprio bene, ma come si è presentata la nostra guida, il malumore è magicamente svanito. Perché? perché quando ha preso il microfono per raccontarci il programma della nostra escursione, scopriamo con estrema gioia che parla esattamente come Adam Sandler in Zohan, film demenziale ma geniale, che se non lo avete visto, non capisco cosa aspettate a farlo, se invece siete come noi che ne conosciamo ogni singola battuta, se vi dico “vi faccio tutti i seta morbida”, non c’è bisogno di aggiungere altro: state già ridendo.
E finalmente si parte alla volta di Gerusalemme, lo ammetto sono molto emozionata, vedremo i luoghi della Passione, Morte, Resurrezione di Gesù Cristo, io non sono una praticante incallita, sono una peccatrice fatta e finita, ma sono cattolica e quindi per me è un momento importante. Prima tappa: il giardino del Getsemani, non vi racconto tutta la storia, tanto se avete frequentato il catechismo, o visto “Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, o più recente, “The passion” di Mel Gibson, dovreste essere piuttosto informati sui fatti.
La prima vera forte emozione che mi ha fatto scendere le lacrime è stato quando, una volta entrati nella chiesa costruita di fianco al giardino, con l’altare appoggiato sulla roccia su cui Gesù fu arrestato, si stava dicendo Messa e quanto è giunto il momento del Padre Nostro, si è sentita una unica forte voce formata da una miriade di lingue diverse: inglese, francese, italiano, spagnolo, tedesco, arabo, ebraico e chissà quante altre, su invito del prete ci siamo presi tutti per mano, un momento di un’intensità indescrivibile e inspiegabile, sta di fatto che le lacrime non smettevano di scendere. Ormai c’ero dentro fino al collo. Attraversare il giardino del Getsemani, pieno di ulivi vecchi come il mondo, appoggiare la mia mano sulla pietra su cui si dice che Gesù si inginocchiò, arrendendosi alla volontà del Padre, mi ha ulteriormente messo alla prova, fortuna che poi è arrivato l’imbecille di turno, un tale che era sul nostro stesso pullman, il quale, prima si sincerava di essere sentito da quante più persone fosse possibile, e poi sparava scemenze a raffica. Valutate voi: lui alla moglie “mi hanno detto che qui vicino c’è un ristorante dove si mangia benissimo, ma non bisogna fidarsi del proprietario” la moglie allocca “a sì, e come si chiama?” lui, sghignazzando “da Giuda”. Fine.
Risaliamo sul pullman, io in estasi mistica, Luca che scatta foto a raffica, il panorama è bellissimo: Gerusalemme è tutta bianca, con il cielo azzurrissimo, interrotto solo da decine e decine di minareti, dedali di viuzze che si inerpicano e chissà dove portano, ovviamente ci è stato caldamente sconsigliato di lanciarsi da soli alla scoperta della città, ma noi non ci pensiamo neanche.
La seconda tappa, su cui non mi dilungherò molto, è la chiesa della Dormizione, qui si dice che la Vergine Maria si addormentò di un sonno eterno, e poi salì in cielo, e banalizzando: religione che hai, tomba di Maria che trovi, nel senso che non c’è un luogo certo che mette tutti d’accordo, su dove Lei sia stata sepolta, e quindi ogni religione la racconta un po’ a modo suo. Poco vicino il luogo dove avvenne l’ultima cena, ma c’era veramente un mare di gente, scolaresche in gita, una confusione indescrivibile, insomma le mie corde cattoliche non hanno vibrato. Ma qui c’è stata una perla, un aneddoto che val la pena ricordare: in una sinagoga adiacente alla Chiesa della Dormizione si trova la tomba di Re David, il profeta, ci dividiamo in due gruppi, uomini da una parte e donne dall’altra, entriamo tutte in fila indiana e una signora del nostro gruppo esordisce così “ma questo qui nella tomba è uno dei nostri? sennò io non lo fotografo”. La stessa signora avrà poi occasione di mettersi di nuovo in mostra successivamente, quando faremo la coda per visitare il Santo Sepolcro.
Nel pomeriggio, la nostra guida stravolge un po’ il programma della gita, così facendo riesce a farci vedere il Santo Sepolcro, che di fatto non era previsto nel programma in quanto spesso bisogna fare code interminabili, ma sacrificando un po’ di inutile shopping nei bazar, riusciamo a fare questa cosa straordinaria, io non sto più nella pelle dalla gioia, la signora di cui sopra è imbufalita come un toro perché lei VOLEVA fare shopping perché aveva promesso al figlio di comprargli un copriletto (ma perché, proprio un copriletto a Gerusalemme?chissà). Ci mettiamo in fila in, è proprio il caso di dirlo, religioso silenzio, interrotto solo dalle lamentele della signora che non voleva stare in coda, che faceva caldo, che c’era troppa gente, che a lei non interessava, che ha scassato tanto le palle che alla fine pure suo marito ha preso le distanze da lei e io credo di averle ringhiato contro qualcosa tipo se si rendeva conto di essere dentro al luogo sacro per eccellenza al mondo e non in coda per andare al cinema, e che comunque non mi risultava che ci avessero imbullonato i piedi al pavimento, che se proprio non le interessava poteva anche uscire, così almeno la smetteva di disturbare noi e tutti quelli che a differenza nostra che eravamo lì quasi per caso, erano lì in pellegrinaggio dopo aver fatto un viaggio lungo di sicuro non su una nave Costa. Poi Luca mi ha dato uno zuccherino, mi ha fatto una carezza sulla testa e così ho smesso di ringhiare e mi sono rimessa diligentemente in coda.
Circondata da gente che pregava, intonava canti sacri, e stringeva tra le mani crocifissi e rosari, mi sono trovata davanti al Sepolcro: un ingresso bassissimo in marmo ci introduce in questa stanzina piena di incensi e illuminata solo da candele, e poi la tomba di Gesù e nel momento esatto in cui stavo uscendo, il prete ortodosso addetto alla vigilanza della tomba, mi prende per un braccio e mi dice di non andarmene subito, ma di restare e pregare con lui. E giù di nuovo lacrime…
Le emozioni crescono mentre ci avviciniamo alla pietra dove venne deposto Cristo una volta che venne tirato giù dalla croce, crescono ancora mentre saliamo al luogo dove fu crocefisso (oddio, non immaginatevi il Golgota come nei film, ora c’è una Chiesa e del Golgota resta solo una pietra posta sotto un altare dentro ad una cappella), ma tanto basta a toccare corde profonde.
Per raggiungere il Muro del Pianto, percorriamo a ritroso una parte della Via Dolorosa, ossia la strada che ha percorso Gesù con la croce in spalla, esperienza molto toccante, perché, anche se i luoghi sacri visti fino a quel momento potevano essere in un certo senso messi lì ad arte, bhè le strade della  Gerusalemme antica mica le hanno rifatte, le pietre sono le stesse, i muri idem, quello che vediamo noi oggi è ciò che ha visto lui, la casa di Simone di Cirene che lo aiutò a portare la croce, il luogo dove Veronica asciugò il volto di Gesù, e dove cadde per la seconda volta. Momenti in cui la curiosità si mescola con la fede e l’atmosfera diventa veramente toccante, anche la signora che si lamentava per il mancato shopping ora è un tripudio di buoni sentimenti, poi però, a un certo punto si è infilata in un bazar e ne abbiamo perse le tracce nel sollievo generale.
Ultima tappa, il muro del pianto. Di nuovo ci dividono, uomini da una parte e donne dall’altra, io mi sono portata carta e penna, con Luca facciamo i nostri bigliettini da incastonare nel muro, e ci avviciniamo. Un momento di preghiera e poi nell’ardua impresa di incastrare il mio bigliettino ne faccio cadere un tir, ma Gesù vede e provvede e non si ferma certo davanti ad un errore di forma, no? A dir la verità mi son sentita un po’ fuori posto lì, mi sembrava di mancare di rispetto a quanti si recano al Muro per pregare anche intere ore in una specie di trans religiosa, un ragazza quasi sbatteva per terra, ma nessuno sembrava preoccuparsene, vai a capire…
E qui si conclude la nostra giornata a Gerusalemme, non immaginavo proprio che ci avrebbe lasciato addosso così tante emozioni, è stata un’esperienza forte e intensa, bella. Da provare, assolutamente.
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“Cielo! Siamo ricchi….e adesso che si fa?”

L’altra sera, dopo cena, mentre eravamo “abbarbonati” sul tappeto (abbiamo un divano bellissimo e comodissimo, ma il tappeto ha tutto un altro sapore, un richiamo irresistibile), tutti intenti a rosicchiare il nostro ghiacciolo post- cena, Luca se ne salta fuori con una domanda delle sue: cosa faresti se fossimo colti da improvvisa ricchezza?
Incredibile, ma non ho saputo rispondere…
Si fa presto a dire “ricchezza”: quanto ricchi?
Ricchi da poter tranquillamente smettere di contare il denaro, che intanto ce n’è e sempre ce ne sarà, oppure ricchi da poter vivere sereni senza rinunciare a niente ma, tuttavia, senza stravolgere le nostre abitudini, o ancora, ricchi da poter mettere il libretto di lavoro in un blocco di cemento a pronta e poi lanciarlo in mare?
A me piace questa: “ricchi da potersi permettere di rincorrere tutti i nostri sogni, raggiungerli, realizzarli e farne di nuovi”. Così mi piace un sacco. Perché un sogno può essere anche una cosa stupida, che non comporti necessariamente un notevole esborso di denaro, ma che magari necessita di tempo e attenzione, e noi siamo sempre di corsa, e il nostro sogno se ne resta lì , tutto solo, a morire di freddo.
E così dopo alcuni viaggi in scooter Chiavari-Portofino andata e ritorno, passati a riflettere, sono riuscita a formulare un elenchino di cose che mi piacerebbe fare, di cose che mi piacerebbe poter acquistare e di “imprese” che mi piacerebbe portare a termine.
Siccome non siamo alle selezioni di Miss Italia, non troverete cose tipo “portare la pace in tutto l’Universo” e “eliminare la fame nel mondo”, ovviamente cercherei di rendermi utile in qualche modo, ma siccome la beneficenza si fa ma non si dice (è così inelegante e squallido autoincensarsi per aver fatto qualcosa di buono per il prossimo), non lo verreste mai a sapere. E poi questo è un blog semi-serio-quasi-stupido, mentre la beneficenza è una cosa serissima, che merita di essere trattata adeguatamente e nelle sedi appropriate.
Ma bando alle ciance.
Se domani mi sveglio che sono ricca, potrebbe succedere che:
– compriamo tre case: una a New York, una a Londra e una a Parigi, quella a New York la vorrei direttamente su Central Park, quella a Londra a Covent Garden o Chelsea, quella a Parigi, scusatemi se è poco, ma Le Marais potrebbe essere perfetto. Potendo continuare a sognare ingaggerei Philippe Stark per arredarle. Tre case, tre stili diversissimi. E le basi per la nostra vita da giramondo sono gettate.
– girerei in lungo e in largo l’Africa, con un aereo atterriamo a Johannesburg e poi si vedrà.
– in un casale in piena campagna, magari una casa colonica nella Maremma, aprirei un piccolo hotel de charme, dove il tempo non esiste, con un ristorante favoloso, ovviamente stellato, cucchiaiato, forchettato, ma con non più di trenta coperti. Un’oasi di pace e piacere. Per me e i miei ospiti.
– nel casale di cui sopra ci sarebbe spazio per il mio allevamento di Labrador e la regina indiscussa sarebbe Tabata.
– ogni mia casa avrebbe uno studio per me e uno per Luca, nel mio studio con vetrata panoramica scriverei i miei libri. Potrei anche vincere il premio Strega, e anche il premio Bancarella come talentuosa scrittrice emergente.
– potrei finalmente valutare di fare quel viaggio al Polo Nord su una rompighiaccio inseguendo l’aurora boreale (ma anche se non dovessi diventare ricca, prima o poi lo farò)
-sulla via del ritorno dal Polo Nord si potrebbe attraversare il Tibet, prolungando verso la Muraglia Cinese e poi giù giù giù verso l’Australia, e poi già che siamo giù non vuoi vedere anche l’aurora australe?
-tornare a casa e sincerarsi che tutti stiano bene, sistemare due cosine e poi ripartire, attraversare tutti gli oceani, magari in barca a vela. Ovviamente avrei fatto tempestivamente un corso e sarei una navigatrice esperta, ma mi organizzerei anche con un equipaggio di tutto rispetto:sono o non sono milionaria?
– alla faccia di chi dice che è da sfigate arricchite mi regalerei una (ma anche due) Birkin fatta su misura per me (ma anche questo so che prima o poi arriverà. Io so aspettare)
-vizierei tutte le persone a me care.
– il mio shopping sarebbe intercontinentale: a New York le scarpe, a Parigi i vestiti da sera (sono milionaria, nonché scrittrice di successo e moglie di un importante business man: abbiamo una vita mondana vivacissima) a Milano il prêt à porter per tutti i giorni, per i dettagli estrosi si va a Londra.
– ogni due anni dovrei rifare il passaporto perché le pagine per i visti sono sempre troppo poche.
– dovremmo anche trovare il tempo per andare in Giappone e fare quei corsi di Feng Shui , Ikebana e Sushi che ci incuriosiscono tanto, e magari valutare di comprare una casa anche là.
– vogliamo parlare dei libri fotografici che raccontano tutti i nostri viaggi?
E poi, cos’altro?
Beh poi sarebbe fantastico se ci toccassero in dono tutte quelle cose che ,purtroppo, non c’è ricchezza che tenga: una buona stella che brilli felice sulle nostre teste garantendoci salute, amore e armonia, per noi e quelli a cui vogliamo bene. Perché senza queste tre, puoi essere anche il più ricco della Terra ma faresti comunque ben poca strada.
E poi quel guizzo, quel lampo negli occhi che si accende ogni volta che pensiamo di organizzare qualcosa, fosse anche solo una pizza fra amici, e la sua mano da stringere, anche quando saremo vecchi e rimbambiti; io so che sarò una vecchia rimbambita molto estrosa e difficile da gestire, potrei decidere di avere i capelli rossi anche a cent’anni – intendo arrivarci e non scherzo affatto.
Ma per questo non serve essere ricchi, e non è affatto un sogno, ma è realtà. Dateci solo un po’ di tempo, e vi faccio vedere io di che pasta sono fatti Magda e Furio.

Il Vittoriale: Magda, Furio e il Vate

E finalmente: il Vittoriale
Felice, entusiasta e grata a Furio per avermici portata.
Chi mi conosce dai tempi della scuola lo sa, adoro il Decadentismo come periodo storico-letterario, mi piace il Liberty e l’Art nouveau come stile architettonico, ho passato la mia adolescenza a leggere e rileggere i poeti maledetti Buadelaire Rimbaud e Mallarmé e alla maturità ho ubriacato la commissione parlando per mezz’ora buona di D’Annunzio.
La pioggia nel pineto rappresenta per me la Poesia con la P maiuscola, e quando ero più giovane la sapevo tutta a memoria.
La visita della Prioria, la casa di D’Annunzio dura circa mezz’ora, si fa a gruppi di sette persone e entrando nell’ingresso principale si ha la sensazione di varcare uno stargate: tutto è esattamente come se lui fosse stato lì cinque minuti prima del vostro arrivo.
Non trovate geniale il fatto che ci fossero due ingressi? Uno per gli ospiti graditi e uno per quelli non graditi? E che negli anni in cui il Fascismo era al suo apice, lui potesse permettersi di far fare due ore di anticamera a Mussolini, al quale dedicò uno specchio creato per l’occasione, recante questa scritta “Al visitatore: teco porti lo specchio di Narciso? Questo è piombato vetro, o mascheraio. Aggiusta le tue maschere al tuo viso ma pensa che sei vetro contro acciaio” a farla breve, con sapienti giri di parole, ha dato dello sfigato a Mussolini. Adorabile.
Si attribuiva arbitrariamente parentele con Michelangelo e San Francesco e altrettanto arbitrariamente decise che i peccati capitali erano cinque e non sette, in quanto avarizia e lussuria non erano poi così gravi. Un genio.
Talmente ebbro di sè, da far costruire la soglia che conduceva al suo studio privato, l’Officina, in modo tale che il visitatore per entrare dovesse per forza inchinarsi. Amante dei levrieri e delle belle donne, ne ebbe tanti sia degli uno che delle altre, la più famosa delle sue amanti fu Eleonora Duse, cui la Pioggia nel pineto è dedicata, seguita poi da Luisa Baccara.
Girando per la casa non si può non rimanere affascinati dall’atmosfera che vi si respira, ogni singola stanza comunica la personalità di colui che la abitò, le sue manie, le sue fissazioni. Opere d’arte sparse ovunque che lui stesso di dilettava a decorare e modificare, collezioni di ogni tipo, ovunque è un tripudio di stoffe, tappeti, damaschi, cuscini e argenti.
Nella sala da pranzo uno degli oggetti più particolari: una tartaruga il cui carapace è quello appartenuto a una tartaruga regalata al Vate morta per indigestione di tuberose. È stata messa da lui in persona a capotavola come invito alla morigeratezza per gli invitati, e buon appetito. Da notare che la tavola era sempre apparecchiata per undici commensali, come i dodici Apostoli dell’ultima cena, meno uno: Giuda, che D’Annunzio non avrebbe gradito alla sua tavola. Umile e di basso profilo, come si evince visitando la sua stanza da bagno personale, il bagno blu, caratterizzato da ben novecento oggetti e oggettini scelti personalmente da lui in persona: bellissimo.
La cucina pur essendo una delle più moderne dell’epoca ci appare come relativamente spoglia, la spiegazione è semplice: è un locale di servizio, quindi non era un locale che lui frequentava, quindi non si meritava particolari attenzioni estetiche.
Uscendo (a malincuore) dalla Prioria ci si addentra per i giardini del Vittoriale, all’interno dei quali si trova un edificio contenente un Mas 96, acronimo di: Motoscafo Armato Silurante, dal D’Annunzio trasformato nel celeberrimo Memento Audere Semper per rendere omaggio allo spirito bellico dello strumento militare stesso, di cui partecipò al battesimo del fuoco. Un altro motto dannunziano passato alla storia è Habere non haberi (possedere, non essere posseduto), anni fa dovevano diventare due miei tatuaggi, poi visto lo spirito fascistoide di queste frasi, ho desistito…
Un altro omaggio fatto a D’Annunzio dalla Regia Marina per onorare la memoria delle sue imprese è la prua della nave Puglia, perfettamente incastonata all’interno del giardino, messa come se stesse per salpare verso l’Adriatico. A chiudere la parte alta dei giardini troviamo il Mausoleo dove trova sepoltura il Vate e tutti i suoi più stretti collaboratori e amici, una struttura circolare estremamente definita, dove gli unici elementi che spezzano il rigore delle forme sono le statue di quattro levrieri messi in altrettante pose diverse e dinamiche.
Si scende poi nella parte più privata dei giardini, con il laghetto delle danze (una specie di piscina ante litteram) con giochi d’acqua e cascatelle, il cimitero dei cani, un’ala dedicata alla sepoltura dei suoi amati levrieri, l’arengo, il bosco sacro dove D’Annunzio celebrava con i compagni più fedeli i riti commemorativi o iniziatici dell’esperienza di guerra. Sparsi ovunque massi prelevati dai siti dove sono state combattute le battaglie più importanti, fiori e alberi, soprattuto di melograno, tanto caro a D’Annunzio in quanto simbolo di prosperità e ricchezza.
Tutto, ma proprio tutto dentro e fuori trasmette una vera e propria ossessione per il bello, l’affannosa ricerca del dettaglio che lasci tutti a bocca aperta, che susciti il massimo dello stupore, che sia specchio per l’estrema vanità del Poeta, il cui motto più famoso “bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte” in questo luogo magnifico sembra rimbalzare in ogni angolo per elevarsi al massimo.
Un posto dove andare, da vedere assolutamente per sognare a occhi aperti, per poter vivere per poche ore il fermento e la passione che si respiravano in Italia all’inizio del Novecento.
Citando ancora una volta D’Annunzio ” La passione in tutto. Desidero le più lievi cose perdutamente, come le più grandi. Non ho mai tregua.”

Magda e Furio e una Comunione al lago

Dove eravamo rimasti?
Ah, sì ora ricordo.
Dunque, dopo aver passato tre quasi quattro magnifiche ore a vagare nel favoloso mondo del Vittoriale ci è venuta fame e, altro fatto non del tutto trascurabile, c’era un sole che spaccava le pietre e Furio stava cominciando a dare segni di insofferenza… E anche io.
Ci infiliamo nelle viuzze del borgo antistante al Vittoriale alla ricerca di un ristorante non troppo turistico, dove mangiare un boccone.
Evitiamo i primi due, troppi turisti seduti…procediamo.
Arrivati ad uno slargo c’è un ristorante che fa anche albergo con un menù interessante e un nome che è tutto un programma: “Trattoria degli angeli”, decidiamo di entrare. Che il nome forse sia ispirato dalla gentilezza delle persone che ci lavorano? mi dimentico sempre del fatto che non siamo in Liguria e quindi essere gentili è normale…
Ma non è di questo che vi voglio parlare. Ho cose ben più interessanti da dirvi, infatti nel ristorante c’era il pranzo per festeggiare una Comunione e gli invitati sembravano arrivare direttamente dal festival dei Freak.
Valutiamo le attenuanti generiche: la moda e lo stile sono, se vogliamo, questioni di gusto personale, ognuno ha il proprio senso estetico, e quello che per me, è bello agli occhi di qualcun altro può essere orrendo (e viceversa).
Però….
Però non puoi andare ad una Comunione in t-shirt nera aderente, jeans e scarpe da ginnastica soprattutto se tua moglie è agghindata pronta per un invito a Ascot con abito super griffato e sandalo gioiello.
Metti che la moda lacustre è diversa da quella della Riviera Ligure ma l’insieme di un altro invitato: pantalone blu chiaro con cavallo sotto-chiappa, blazer corto corto blu scuro, camicia bianca e sneakers nere, secondo me era un po’ sconclusionato e poco importa se hai forse vent’anni, la crestina fatta con il gel è truzza.
A confondere ulteriormente il quadro c’erano signore che sembravano pronte per andare a fare la spesa accompagnate però a signori in completo grigio, ragazze scosciate e scollate sedute di fianco ad una signora musulmana con tanto di velo (bello a dirla tutta) e tacchi a spillissimo che sembravano dover cedere da un momento all’altro schiacciati dal peso di una figura tutt’altro che esile.
E ora alcune cose ho notato, decisamente da evitare:
Anche se sono due morse infernali mai mai MAI sfilarsi le scarpe una volta sedute a tavola. Pensiamo di averla fatta franca, nessuno noterà mai i nostri piedini. Errore: chi è seduto alle nostre spalle lo noterà. Ed è brutto da vedersi, molto brutto.
Se non siamo dotate di caviglie esili esili, evitiamo di ostinarci a comprare sandali con lacci alla caviglia, il risultato è sconfortante, infatti le nostre caviglie sembreranno ancora più grosse costrette dentro a cinturini troppo stretti (ricordate che le caviglie con il passare delle ore tendono a gonfiarsi un pochino). Scongiurerete anche il rischio di una feblite, vi pare poco?
Mai indossare un vestito senza reggiseno, soprattutto se Madre Natura con voi è stata particolarmente generosa. Se poi il vestito in questione è rosso e troppo corto, i sandali troppo alti e voi non sapete portarli e quindi camminate tutte sbilanciate in avanti, non è che sono io a essere troppo acida, siete voi che ve la siete cercata.
Quando comprate dei sandali, mentre li provate, sinceratevi che la forma sia adeguata al vostro piede. Mi spiego meglio: i mignolini devono stare dentro la scarpa e non cercare vie di fuga laterali, che se poi per disgrazia la trovano non c’è niente di peggio che vedere due bei sandali con il mignolino che sbuca fuori come la testina di un gatto che si sporge dalle ringhiere di un balcone.
Sempre sulle scarpe: già le scarpe con il plateau sono brutte, se poi le scegliete in tinta fluo e plateau alto una spanna e le abbinate ad un vestito sempre troppo corto, non rimaneteci male se anche vostra mamma fa finta di non conoscervi se vi incrocia. C’est la vie.
E per concludere, l’accessorio da cerimonia per eccellenza: la stola.
La colpa è nostra, tutta nostra di noi commesse (sì, mi ci metto dentro anche io perché ho lavorato per un marchio femminile molto in voga quando si tratta di cerimonie)che con subdola mano sapiente e allenata vi cingiamo le spalle con stole che poi annodiamo con fantasia creando volumi e giochi di intreccio oggettivamente belli, peccato che siano praticamente non realizzabili da ogni altro comune mortale e poi al primo accenno di movimento crolla tutto. Il risultato? A metà festa tutte le invitate stola-munite sembra che abbiano uno strofinaccio da cucina legato intorno alle spalle, in alternativa, uno straccio per la polvere ammucchiato sulla sedia e le più disinvolte si renderanno detestabili sbattendola in faccia a tutti gli invitati nel vano tentativo di rimetterla al suo posto. Date retta a me: fate un bel mucchio delle vostre stole e poi dategli fuoco, non avete perso niente.
Per chi se lo stesse domandando: abbiamo mangiato divinamente, coccolati da personale gentile e sorridente, spendendo una cifra più che corretta.
Voto al ristorante 10 e lode.
Voto agli invitati: mmmmmhhhhh, lasciamo stare ( ma grazie perché ci avete fatto divertire un sacco)

Fine seconda parte.

Magda e Furio e la gita fuori porta

Una domenica indimenticabile….
Ora si tratta di decidere da dove cominciare a raccontarla, e come.
Testa o croce.
Testa: resoconto semiserio di una domenica italiana
Croce: il Vittoriale minuto per minuto con riferimenti alla vita e alle opere del D’Annunzio
Va be’ dai, prima vi faccio ridere…

Sveglia alle ore 6:00 e mentre in altre circostanze avrei brontolato e sarei stata simpatica e socievole come un lupo mannaro, salto giù dal letto che neanche a Natale quando c’erano da aprire tutti i regali ero così pimpante. Ci prepariamo e via, si parte alla volta di Gardone Riviera: andiamo a visitare il Vittoriale. Siamo allegri e ridanciani, promette di essere una domenica perfetta.
C’è poco traffico e il viaggio è piacevole e rilassante, Furio guida la sua crucca bianca in totale sicurezza, quando a un certo punto lo spiazzo con un’uscita delle mie “ma su che lago si trova con precisione il Vittoriale?”. Ne convengo, se un posto si chiama GARDONE RIVIERA, un minimo di sospetto avrebbe dovuto venirmi, ma il mio cervello alle sei del mattino è pigro, e anche alle sette, e un pochino anche alle otto….fossero state le nove ci sarei arrivata.
In risposta alla mia domanda Furio alza il volume dell’autoradio…che sia un messaggio subliminale? In autostrada noi siamo sintonizzati sempre su Isoradio, musica improbabile ma informazioni sul traffico sempre aggiornate, però c’è una cosa che non mi spiego: pazienza noi che siamo in autostrada e quindi essere informati sul traffico, per noi, può avere la sua importanza, ma perché alla redazione della radio arrivano messaggi tipo “mi sono appena svegliato, sono ancora a letto e vi ascolto”?
Trovare una possibile spiegazione plausibile ci fa venire fame, è ora di una sosta all’autogrill e meno male che sono passate le nove e il mio cervello si ricorda che oggi c’è il raduno degli alpini a Piacenza, il che spiega anche gli innumerevoli pullman che incrociamo per strada, sarà il caso di rinviare la sosta a dopo Piacenza, al fine di evitare di rimanere imprigionati per sempre in autogrill schiacciati fra cori alpini, caffè corretti grappa, penne, pennine e pennacchi.
Mi piacciono gli alpini, mio padre era un alpino, però non sono ancora riuscita a elaborare il trauma di quando avevo circa otto anni, c’era il raduno degli alpini a Genova, famiglia al completo e cappello con penna nera in primo piano. Diluvio, niente ombrelli, solo un impermeabile giallo fatto dello stesso materiale dei sacchetti della spesa, taglia XXXL: dunque, io a otto anni pesavo forse venti chili, sembravo in accappatoio con quell’affare orrendo sopra al mio vestito preferito in velluto viola con una balza a fiorellini e un fiore fatto con la stessa stoffa della balza applicato sul petto e maniche a sbuffo. Bellissimo. Gira ancora una foto di quel raduno: bimba con adorabile vestito viola con sopra accappatoio di plastica giallo in testa cappello da alpino, sguardo triste perché oltre a litri e litri di pioggia ha preso pure una sberla da suo padre in quanto la bimba ha pestato inavvertitamente un ricordino di un cane che passava di li. Certe cose non si dimenticano.
Finalmente ci fermiamo ad un autogrill “alpini free”, cappuccio e brioche per Magda, un Capri e una Coca per Furio ( i nostri fusi orari alimentari sono decisamente sfalsati). Se siamo riusciti a scampare al pericolo alpini, nulla possiamo per evitare un gruppo di tifosi del Torino in trasferta in divisa total look granata: felpa, polo, sciarpa, cappello e bandiere. Alla toilette gentili signorine della curva ripassano i cori da stadio, e devo convenire che fare pipì accompagnata da un sentito “noi non ti lasceremo maiiiiiiiiiii” ha una sua suggestione.
Nonostante i reiterati tentativi del Tom Tom di farci sbagliare strada, arriviamo a destinazione. Posteggiamo la macchina. Famigliola apriamo la prima busta: cosa c’è scritto? Arrivo previsto ore 10:15. Sono le 10:16. Furio è Furio e non si smentisce mai.
Fine prima parte.

Hong Kong:il formicaio “grandi firme”

Un mondo completamente diverso dal nostro, non dico né migliore, né peggiore, dico solo diverso.
Tutto parla della magnifica ingegnosità degli uomini, ovunque ti giri hai la dimostrazione che l’uomo sa fare grandi cose, cosa c’è di diverso rispetto a noi? Che loro le cose se le cominciano, poi le finiscono anche; che se c’è da apportare una miglioria al tessuto urbano e se per farlo devono tirare giù un palazzo, loro lo fanno (agli abitanti sfollati danno un’altra casa, mica li buttano nelle fondamenta della nuova costruzione). Hanno un rispetto del bene comune imbarazzante e un rispetto delle regole totale. Il cartello dice che devi camminare a destra? Come tante formichine ci si mette in fila sulla destra e si lascia la sinistra libera per chi va di corsa.
Un punto a favore per gli italiani: molte delle grandi opere realizzate, un tunnel sotterraneo lungo due chilometri costruito nel 1972 che collega l’isola di Hong Kong a Kowloon Penisula, la funivia infinita di Ngon Ping (per arrivare in cima ci si mette 25 minuti e si passa sopra a fiumi, laghi, montagne, colline e crepacci) che vi conduce al monastero Po Lin dove si può ammainare il Tian Tan Buddha, una statua di bronzo, raffigurante appunto un Buddha alta 26 metri, un ponte infinito che collega la città al nuovo aeroporto, bhe, cari miei, sono tutte opere fatte da ditte italiane. A voi la scelta: rappresenteranno l’eccellenza ingegneristica italiana? O semplicemente sono quelle che hanno pagato di più per aggiudicarsi l’appalto? Io voglio credere nella prima.
Cosa raccontarvi di Hong Kong? La città di per se è piccola quindi in virtù dei suoi sette milioni di abitanti, si è dovuta sviluppare verso l’alto, e gli altissimi grattacieli altro non sono che enormi condomini che ospitano migliaia di appartamenti (considerate che un appartamento medio è di circa 35 metri quadrati).
È tutto un trionfo di centri commerciali, grandi marchi (ma grandi grandi) che hanno boutiques seriali che sono prese d’assalto dal mattino alla sera e comprano come matti. Poi le cose che comprano non si sa dove e quando le mettano, considerato che non sono proprio campioni di eleganza e stile…
Non sono un popolo gentile, non chiedono permesso, non dicono grazie, non cedono il passo, niente di niente, parlano un inglese tutto loro e se non capisci: arrangiati, mica ti abbiamo chiesto noi di venire. Questo in sostanza. E qui si spiega la necessità di imporre così tante regole: hai idea di cosa succederebbe se sette milioni di maleducati venissero abbandonati a loro stessi?
Alcuni scorci sono veramente affascinanti: Aberdeen e Tao I sono due villaggi di pescatori che riportano la memoria e tempi passati, il primo a dire il vero ormai è fortemente commercializzato e a misura di turista, il secondo invece conserva ancora tutto il suo fascino. Repulse bay: ospita il Santuario di Kwun Yam, una galleria piuttosto eccentrica di divinità a cui chiedere ogni tipo di grazie e favore. Il mercato notturno di Temple Street merita sicuramente la visita che noi per motivi di tempo non siamo riusciti a fare.
Da non perdere la Simphony of Lights: uno spettacolo di luci e suoni che si ripete tutte le sere alle venti. Protagonisti di questo spettacolo sono appunto i grattaceli di Hong Kong che con le loro luci mettono in piedi una vera e propria scenografia in pieno stile “guerre stellari”. Il posto ideale per goderselo è l’Avenue of Stars, un omaggio di Hong Kong alle sue star del cinema, bellissima passeggiata che costeggia tutto il fiume, da farsi preferibilmente dal tramonto in poi.
Se devo muovere una critica a questa città è che essendo un cantiere in perenne evoluzione, manca la memoria, il fascino del tempo passato, perché come vi ho detto, loro buttano giù il vecchio e ricostruiscono, quindi è inevitabile che alcune cose vadano perdute, ed è un peccato, ma questo è lo scotto da pagare per avere a disposizione una delle città più efficienti al mondo, dove tutti sembrano avere uno scopo ben preciso, una meta prefissata che bisogna raggiungere prima che il sole tramonti.
Proprio come in un formicaio. Appunto.

Delitto al ristorante cinese

Ultimo giorno a zonzo per Hong Kong, vaghiamo così senza meta ridendo come stupidi (cosa che in questi venti giorni ci è capitata spesso), guardandoci intorno incuriositi dalla varia umanità che circola per questa città che, più la vivo, più mi sembra che assomigli a un formicaio.
Si è fatta ora di pranzo, che si fa?
Andiamo sul sicuro, un panino e via, quello con l’insegna con gli archi dorati per intendersi… Ma no, dai, è l’ultimo giorno, caliamoci nella loro realtà locale, andiamo in un ristorante dove possiamo assaggiare la vera cucina cinese, non quella che ci propinano in Italia. E così, traboccanti entusiasmo, ci mettiamo alla ricerca di un ristorante che ci ispiri. Ne troviamo uno molto carino nell’aspetto, pieno di gente che mangia entusiasta, e pure la coda fuori, ci mettiamo in coda pure noi… NON L’AVESSIMO MAI FATTO!
Per ordinare bisognava mettere le crocette sul menù di fianco alle pietanze scelte, noi ligi lo facciamo; quando arriva la nostra cameriera ci fa notare, in un inglese drammatico, che forse abbiamo ordinato un po’ troppe cose, non c’è problema, ne eliminiamo un paio.
Che il mio dramma abbia inizio.
Cominciano a portarci piatti su piatti con sopra ogni genere di cose: un piatto, due piatti, tre piatti, una zuppiera, coppette, piattini, insomma, a farla breve, nel giro di pochi minuti il nostro tavolo è pieno. Dai, diamoci dentro… inforchiamo le bacchette e via, all’attacco del primo piatto. Noodle (erano tagliatelle) con gamberi, capesante e uovo, sulla carta buonissimo, all’assaggio: drammatico, un insieme viscido ricoperto con una bava di uovo e gamberi coriacei. E tanto, tantissimo, non finisce mai. Marca male… La paura si trasforma in terrore quando assaggiamo le altre portate: dire che sono rivoltanti è brutto, diremo diplomaticamente che sono sapori e consistenze a cui noi non siamo abituati. Sembrano bocconcini di pollo, in realtà sono cubetti di non siamo riusciti a capire cosa, un insieme spugnoso, insapore e impossibile da buttare giù, e anche qui, dose per tre. Ravioli con gamberi e vermicelli: stoicamente lo finiamo. Gamberi in agrodolce con verdure: Luca la spunta. Ma si arrende.
Resto sola a combattere e la voglia di urlare e scaraventare tutto a terra si fa sempre più forte. La cameriera passa e ridacchia “stronza!” Dopo aver dato quattro stoiche cucchiaiate alla zuppa direttamente dalla zuppiera sono a un passo dal conato di vomito, non ne posso più. Il nostro tavolo è un vero e proprio campo di battaglia, io ho abbandonato tutte le regole del bon ton, ho mangiato la zuppa direttamente dalla zuppiera (piccoletta, a dire il vero – poteva indurre in confusione) e ho sparpagliato cibo dappertutto. Chiediamo il conto. Voglio uscire e basta.
Una volta varcata la soglia tiro un sospiro di sollievo: il primo che mi dice che la cucina cinese è buona e sana, io lo giuro, lo prendo a schiaffi.

Bo Innovation

Beh, il mio primo post non poteva che trattare un argomento culinario, e quindi eccomi qui per raccontarti una serata “estrema”.
Estrema perché il payoff di “Bo innovation” è “extreme chinese cuisine”, e almeno inizialmente ci aveva un po’ intimoriti – diciamolo, estremo e cinese nella stessa frase non tranquillizzerebbe nessuno – però con un pizzico di coraggio e tanta curiosità abbiamo deciso di provare questa esperienza.
Arriviamo con un po’ di anticipo rispetto alla prenotazione, siamo stati più bravi del previsto a trovare il locale che si trova sull’isola di Hong Kong vicino alla metro di Wan Chai, quindi il maître spiazzato dal nostro anticipo ci sistema in un tavolino di fuori, purtroppo però a fine serata i funghi a gas non riusciranno a contrastare la brezza e “fuggiremo” quanto prima per evitare di congelare completamente.
La carta prevede solamente tre tipi di menù degustazione, scegliamo il “tasting menu” meno articolato, che comprende già sette antipasti, un piatto principale e un paio di dessert.
Iniziamo con il “giardino morto”, a prima vista assomiglia ad una zolla di terremo con su qualche ramoscello (in realtà sono funghi enoki passati all’azoto liquido) e un vermicello fritto, poggiati su un letto di “terra” fatta da polvere di porcini disidratati, che nasconde la zolla di spuma al lime.

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Sul sentore di fungo proseguiamo con il secondo assaggio, “Morel” noodle di spugnole con qualche fungo e prosciutto iberico.
Foie gras mui choy è la portata successiva, non chiedetemi cosa voglia dire… Non lo so… Il cameriere sollecitato a parlare più lentamente ha proseguito imperterrito alla stessa velocità, in sostanza è una fetta di foie gras al naturale piastrato con un gelato… Mui choy 😉 non mi ha fatto impazzire ma non sono un amante del foie gras, al contrario Manuela ne era entusiasta.
Il merluzzo invece con una gelatina di zafferano, crema al miso e alghe disidratate mi ha interessato, tutti gli ingredienti insieme hanno creato un’armonia incredibile, in particolare le alghe hanno bilanciato splendidamente il piatto che altrimenti sarebbe stato sovrastato dallo zafferano.

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Ma ora veniamo al “molecolar”, il cameriere ci porge un cucchiaio con all’interno una sfera gelatinosa all’aspetto, ci chiede di chiudere gli occhi e assaggiare il boccone in una sola volta, lo assecondiamo incuriositi. Appena schiacciamo la sfera si schiude e rilascia un intingolo meraviglioso, una sorta di brodo molto sapido, credo – ma il cameriere parla sempre più velocemente – che si tratti di una sorta di raviolo tipico cinese servito in brodo ma al contrario, il brodo è il ripieno di questo raviolo molecolare.

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Dopo una capasanta quelchel’è… Buona ma dopo il raviolo, mi sembra quasi scontata… Arriva un altro piattino che ci ha colpito molto, il “tomato”, un trittico formato da un pomodorino, una specie di oliva… È un enigmatico marshmallow.
Il pomodorino ci spiegano viene lasciamo 45 minuti in immersione nel pat chun, una specie di aceto zuccherato, ci consigliano di mangiarlo con le mani perché è molto “juicy” e sicuramente con le bacchette lo avrei pataccato sulla camicia…
Il pomodorino è incredibile, da spugna ha assorbito il condimento e lo restituisce quasi come la sfera molecolare di prima. Assaggiamo poi l’oliva fermentata che viene fritta e servita con una misteriosa tapenade, e infine assaggiamo questo curioso marshmallow che racchiude un liquido verde, sembra basilico, il gusto nel complesso ci è familiare, sembra quasi un piatto di casa nostra, se non fosse per le diverse ed inaspettate consistenze.

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È il momento dei piatti principali, Manuela ha scelto un pollo long jiang con riso (Acquerello per la cronaca) ed io i gamberi rossi.
Nel complesso ottimi piatti, ma abituati ai fuochi artificiali iniziali siamo rimasti un po’ delusi, però nessuna lamentela.
Proseguiamo con un assaggio di dessert e i petit dim-sum che accompagnano un piccolo the freddo, questi ultimi non ci sono piaciuti particolarmente, un mix dolce, salato e umame che non ha brillato per i nostri gusti.
Due parole con lo chef Alvin Leung e via prima di congelare.
La serata è stata sicuramente da ricordare con piatti e sapori sicuramente inusuali ma allo stesso modo familiari, la cucina cinese estrema si è rivelata una divertente sopresa.
Ora a dormire… Che domani si va da Nobu…

Sei brutta e cattiva

Nutro forti sospetti circa la simpatia delle Neo Zelandesi.
Già parlano un inglese tutto loro dove c’è una maiuscola all’inizio del discorso e un punto alla fine, se non capisci quello ci sta in mezzo, fondamentalmente non è un problema che le riguardano.
Se poi ti capita di fare un check in per Hong Kong con una hostess che parla cino-inglese, in un aeroporto in cui è difficilissimo sia entrare che uscire, bhe auguri…
Ecco i fatti: il nostro biglietto elettronico prevede 2 pezzi di bagaglio e testa “free” ossia senza peso….prova tu se ci riesci a farglielo capire, lei voleva farci pagare, tenetevi forte 776 dollari e spicci di “extra charge”. Ok che il dollaro neozelandese è meno pesante del dollaro americano, ma resta comunque una cifra folle. A Perazzo gli si è arrotolata la lingua e a momenti la sbrana (vecchie storie di somiglianze con persone antipatiche) io a momenti svengo. Ma ecco la sua brillante soluzione: tira fuori due borse del tutto simili a quelle della Coop e ci suggerisce di riempire con gli oggetti più pesanti. Bene, e poi? E poi le imbarchiamo insieme alla valige, nella stiva. Bene, te sei matta. A salvare la situazione il manager del customer service, che il destino ha voluto che passasse di lì, legge i nostri documenti, problema risolto, bagagli imbarcati, Perazzo e io ci prostriamo davanti a lui come due gheishe riconoscenti.
Ultima domanda: si, possono avere i posti dalle uscite di sicurezza? Certo che sì, basta chiedere…e pagare 100 dollari americani. Bene, ti ho già detto che sei tutta matta? Lasciamo stare.
Lei si vendica mettendoci praticamente sulla coda dell’aereo, fila 65, ma con, cavolo che ci hai spillato quasi 800 dollari. Strega!
A seguire, controllo passaporto, controllo dogana, controllo metal detector, ispezione nella borsa… mamma mia che stress, ma alla fine l’abbiamo spuntata noi. Tiè!
Prossima fermata Hong Kong.

Facciamolo Mahu

Noi avevamo semplificato il tutto definendolo “o femminiello”…però era uno solo… Manuel. Poi si è aggiunto Danitha, poi un altro, Maheta, mi pare, e poi arriva Angelo…
Ma quanti sono?
O la Polinesia è il paradiso dell’omosessualità, oppure veramente non si spiega l’altissima concentrazione di queste figure gentili e servizievoli che abbiamo trovato nei vari hotel che abbiamo visitato. Sono assolutamente a cavallo fra il maschile e il femminile, non si possono definire donne in quanto i tratti sono palesemente maschili, non si possono definire uomini perché i modi di fare e il tono della voce sono femminili (a dire il vero, io compresa, pagherei per avere un decimo della loro grazia).
Anche il loro modo di vestire è “ibrido”: non è sfacciatamente iperfemminile come nella transessualità ma neppure costretto in abiti maschili. Quelli che abbiamo incontrato noi, indossavano un lungo pareo legato sui fianchi nei toni del beige e una camicia in fantasie floreali dove l’unico dettaglio femminile erano le maniche a sbuffo. Un fiore fra i capelli, chi li aveva acconciati in maniera femminile e chi impomatati di gel, qualcuno indossava collane di perle tahitiane per coprire il pomo d’Adamo, alcuni avevano pure un filo di trucco, altri la barba fatta di fresco. Insomma un caleidoscopico mix fra maschile e femminile.
Parlandone con un altro turista incuriosito come noi da questo strano mondo, ci viene svelato l’arcano e cioè che è nella tradizione Polinesiana allevare un figlio, normalmente il quinto o il settimo (ma non esiste una regola fissa), come se fosse una figlia era la prassi. Indosserà abiti femminili sin da piccolo e gli verrà insegnato ad accudire la casa e i bambini. Non sarà più un uomo o una donna, sarà un Mahu. Tre le ipotesi spiegare questo fenomeno: la prima è che lo facevano per preservare qualche maschio, visto le ingenti perdite nella lotta fra clan, la seconda ipotesi è che tutto sommato faceva comodo avere un aiuto domestico, la terza è che era un modo sicuro di controllare le nascite.
Una volta adulti venivano assunti nelle case dei nobili (Arii) come maggiordomi e vivevano un’esistenza più che decorosa.
A rovinare il tutto come sempre ci abbiamo pensato noi occidentali, e quando soldati e marinai sono giunti in Polinesia, il Mahu, cominciando a prostituirsi si è trasformato in Rae Rae, molto più sfacciato e femminile. E il resto è storia dei nostri giorni.
Quindi non è che in Polinesia ci siano più omosessuali che altrove, la differenza sta nel fatto che qui, per tradizione culturale non si nascondono, ma anzi vivono un’esistenza perfettamente integrata nel tessuto sociale. I Mahu vengono assunti nelle strutture turistiche perché gentili ed educati. Quindi se vi capiterà di andare in Polinesia e incontrerete un Mahu non ridacchiate alle sue spalle e non guardatelo con eccessiva curiosità, urtereste solo la sua sensibilità, come per qualsiasi essere umano.

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