“Io odio correre” diario di una maratoneta per amore

Il 2016, che anno straordinario è stato! Straordinario al punto che ho pensato di farlo diventare un libro… Già ma da dove si comincia a scrivere un libro? i filosofi direbbero che si comincia a scrivere un libro,  nel momento stesso in cui percepisci la necessità di farlo. I sognatori, diranno invece, che un libro si comincia a scrivere nel momento esatto in cui si accende la scintilla, e compare nella testa quella frase magica da cui si snocciolerà tutto il discorso, tutto d’un fiato, come se fosse già bello che scritto dentro all’anima, ma solo non si trovava la via per portarlo alla luce.

Io ci ho impiegato quasi quattro anni: i primi tre pensare se ero all’altezza e se potevo cimentarmi in un’impresa così ardua,  nel quarto ho deciso di passare all’azione, e come una sartina di altri tempi, ho cominciato a disegnare il bozzetto, a buttare giù idee e spunti un po’ a casaccio, sulle pagine di un Block notes giallo: una parola, un’immagine, una riflessione, tutto buttato lì, in attesa di nuovi ordini.

Poi finalmente un giorno è arrivata l’idea che stavo aspettando: una maratona è lunga 42 km e 195 metri, quindi il mio libro sarà composto da 42 capitoli e 195 parole. Ogni capitolo un suo titolo ben definito, come se si trattassero delle tante tappe di cui si compone un cammino. Come a voler dire al lettore: “vieni che ti accompagno io, che questa strada la conosco bene”, e da quel momento è stata tutta discesa.

Amo alla follia “Io odio correre” perchè dentro ci sono io, forse come non mi sono mai mostrata, nuda e cruda fino all’osso. Ci sono tutti i miei stati d’animo, le gioe, le paturnie, i dispiaceri e le soddisfazioni. Niente è stato inventato: fatti, persone e luoghi esistono realmente, e se in qualche pagina si piange, in molte altre, per fortuna, si ride a crepapelle. E poi è il mio primo libro: come faccio a non pensare che sia il più bel libro scritto fino ad ora in tutta la storia della letteratura? Sarebbe come se una mamma si mettesse a urlare in piazza che suo figlio è brutto e antipatico: impossibile!

Durante un’intervista mi hanno chiesto a che genere appartiene “Io odio correre”… domanda difficile. La risposta più corretta, credo sia che è proprio come la persona che l’ha scritto: io, che non eccello in niente ma mi barcameno in tutto. E quindi è diario biografico, ma anche una storia d’amore, un libro ironico e buffo, ma a tratti commovente e riflessivo, e pure un libro motivazionale, perché se ci sono riuscita io a correre la maratona di New York, credo che ci possano riuscire veramente tutti, solo che io mostro la via meno atletica ma più umana per farlo.

Ecco così raccontata la storia di “Io odio correre”, che è e resterà per me e per sempre, il mio sogno tirato fuori dal cassetto e realizzato, perchè come diceva Walt Disney: se lo puoi immaginare, lo puoi fare.

Se vi ho incuriosito… lo trovate qui

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C’era una volta un cane magico…

Un gesto semplice, quotidiano, fatto senza pensare, come avvolgere una crosta di parmigiano nella pellicola per rimetterla in frigo, ed ecco prepotente, la mancanza travolgermi. Sarà che oggi è una piovigginosa e umida serata di novembre, sarà quell’atmosfera fatta di zuppa di legumi calda, felponi casalinghi un po’ sformati, ma stasera Tabata, più che in altre sere, da cinque mesi a questa parte, manca.

Non ho scritto una parola di quel giorno, alcuni forse se lo aspettavano, ma non l’ho fatto, non mi venivano le parole, come un fiume troppo impetuoso che fatica a scorrere nel suo letto, così erano (sono?) i miei sentimenti pensando a Tabata. “Il dolore per diventare melodia, ha bisogno di tempo” credo che lo stesso concetto si possa riferire anche per la parola scritta: c’è voluto tempo per mettere in ordine tutte le parole che mi vengono in mente se penso al 26 di maggio, il giorno più doloroso e tuttavia più sublime del mio lungo percorso con Tabata.

Ma ora posso farlo, ora ci riesco. Ora il dolore sordo è diventato una favola bella; c’è voluto tempo, ma alla fine ci sono riuscita. Un periodo difficile, a marzo abbiamo scoperto che Tabata era gravemente malata, un brutto tumore invasivo e aggressivo si è insinuato nel nostro ménage fatto di amore e coccole e, volenti o nolenti, abbiamo dovuto accoglierlo, decidendo che ogni giorno in più era un regalo. Non è stato facile stare a guardare il nostro adorato cagnolone accusare ogni singolo colpo che la malattia le infieriva, ma lei da super cane generoso quale era, ci regalava comunque il suo sguardo felice, la sua coda a frullino, il suo desiderio di esserci, anche quando alzarsi per venirci a fare le feste, era uno sforzo che faticava a nascondere. Un lento declino, oserei dire dolce, senza strappi, un piccolo dettaglio in meno ogni giorno in modo da non togliere niente alla nostra quotidianità in maniera brutale, l’abbiamo accompagnata giorno dopo giorno, assecondando il suo essere, dalla passeggiata via via più breve, alla sua pappa via via più morbida e facile  da mangiare, alla sua cuccia, sempre più imbottita, perché Tabata non doveva soffrire, nemmeno un giorno, nemmeno un minuto. Nemmeno mai. Non se lo meritava, e questa era la promessa che le ho fatto, e che sono riuscita a mantenere.

Si dice che il tuo cane ti faccia capire quando è il momento di lasciarlo andare, io non avevo idea di cosa significasse questa cosa, fino a quella mattina…

Una notte difficile, fatta di risvegli continui, di sospiri, di sangue. Al mattino siamo provati, Tabata la più stanca di tutti, sdraiata su un fianco, il suo respiro è affannato, le esce un po’ di sangue dalla bocca. Mi siedo di fianco a lei, gli occhi negli occhi e le domando – ma lo sto chiedendo a lei o a me? – “Dimmi la verità, Tabata sei stanca?” lei alza la testa e me la appoggia sulla gamba e fa un lunghissimo sospiro. Eccola la risposta di cui avevo tanto sentito parlare ma che non riuscivo a comprendere a fondo fino a quel momento. Le ore dopo sono state un susseguirsi di telefonate, di accordi con il veterinario, di cuori spezzati ma estremamente lucidi, di carezze, di baci, di fazzoletti che non ci sono mai quando servono.

Tabata se n’è andata con la stessa delicata dolcezza con cui è entrata nella mia vita, l’ultima carezza che le ho fatto è riuscita a raccogliere il suo ultimo respiro, ha chiuso i suoi occhi guardando i miei che le sorridevano, così come le hanno sempre sorriso in tutti questi anni. Siamo riusciti a chiudere il suo cerchio lasciando fuori il dolore. Abbiamo mantenuto la promessa, ed è per questo che anche se con dolore, non c’è rimpianto. Ed è per questo che la sua è una favola bella.

E proprio come nelle favole belle, il lieto fine esiste. Esiste perché Tabata continua a farci sorridere ogni volta che ci succede qualcosa di strambo, ogni volta che incrociamo un altro cane per strada, ogni volta che scherziamo sul fatto che lei vive ancora con noi, nella sua piccola scatoletta di legno con seduto sopra il suo pupazzo, perché io, colpevolmente, non ho mai trovato il momento giusto per liberarla consegnandola al suo habitat preferito: il mare. Lo faremo, lo so, arriverà quel giorno in cui ci sveglieremo e non ci sarà bisogno di aggiungere altro, aspetteremo l’ora del tramonto poi prenderemo le biciclette e raggiungeremo una spiaggia un po’ defilata. Una volta lì le sue ceneri si fonderanno con il mare, abbiamo tenuto il suo osso di gomma: consegneremo al mare anche lui, così lei giocherà con i delfini, con le sirene, con tutte le creature marine che avranno la fortuna incontrarla, felice, gioiosa…viva. E noi ci berremo una birra pensando a lei, e a tutto quello che lei ha fatto per noi.

Viva come vivo è il suo ricordo che prepotente si è risvegliato stasera per colpa (o merito) di una crosta di formaggio che fino all’anno scorso conservavamo per lei, perché la facevano impazzire. Cinque mesi ci sono voluti per trasformare la sua mancanza in una melodia che alleviasse il cuore piuttosto che affliggerlo. Perché Tabata era ed è questo: una musica lieve, una rima buffa, il sole disegnato da un bambino, la gioia che generosamente ci ha donato che, come un filone aureo sembra non esaurirsi.

Tabata era Tabata. Punto, non c’è molto altro da aggiungere. Mia nipote Alice, da piccina diceva che Tabata era un cane magico. Forse come sempre accade, i bambini vedono un po’ più distante di noi adulti. E hanno ragione loro.

Pane, farina, fatica e ricordi

“mi mandi un po’ la Manuela che vediamo cosa sa fare”.

Tutto ebbe inizio così, la prima esperienza lavorativa della mia vita, non avevo ancora compiuto quindici anni, promossa a pieni voti con largo anticipo, ma non ero una secchiona, ci tengo a precisarlo: ottimizzavo le mie performances studentesche, facendo in modo di avere tutte le medie fatte, finite e pronte per il 31 maggio, così poi potevo andare a scuola come e quando ne avevo voglia. Era il tacito accordo con i miei, potevo smettere di andare a scuola a fine maggio, però era scontato che fossi promossa, e pure con una buona media. L’essere rimandati, o peggio ancora, la bocciatura, non erano risultati nemmeno da considerare, così era e stop, fine discussione.

L’estate del 1987 fu così l’estate che sancì a pieno titolo il mio ingresso nel mondo del lavoro, anche se solo nei mesi estivi. Mi ritrovai a fare l’aiuto dell’aiuto, dell’aiuto commessa nel panificio di paese, ai tempi ridente località turistica del Tigullio (ma veramente non così per dire), che d’estate moltiplicava a livello esponenziale i suoi abitanti e quindi, per chi voleva, c’era lavoro da vendere, ed era normale per tutti i miei coetanei avere un lavoro estivo.

Il proprietario del panificio era un signore gentilissimo ma di pochissime parole, credo, anzi ne sono certa, che il lavoro notturno ne abbia per sempre modificato il carattere, rendendolo concreto e solido, e di certo non una di quelle persone che si perdono in inutili giri di parole; d’estate entrava in laboratorio alle 10 di sera e lavorava ininterrottamente fino alle 13 dl giorno dopo. Aveva mani grandissime deformate da gesti ripetuti chissà quante volte, erano mani quasi insensibili al calore del forno e delle teglie roventi, ed erano impolverate di farina sempre, anche quando non lavoravano. Erano mani oneste.

E così, perché così andavano le cose, mi ritrovai un lunedì pomeriggio, con un grembiule bianco legato in vita, i capelli raccolti in una coda, dietro il bancone di un panificio, senza sapere che orari avrei fatto, che stipendio avrei preso, che mansioni avrei avuto. Niente, ma tanta era la fiducia che i miei riponevano in Giancarlo (si chiamava così) che non sentirono affatto l’esigenza di chiedere dettagli, che magari, era anche un po’ presuntuoso come atteggiamento, e poi mio fratello lavorava già da qualche stagione nel laboratorio, e questo come garanzia era più che sufficiente. Quanto a me, ero così timida e in soggezione che non avrei osato aprire bocca nemmeno per chiedere aiuto se il negozio stesse andando in fiamme; ai tempi diventato rossa come un pomodoro fino alle orecchie per un nonnulla, mi cominciavano a sudare le mani e la voce diventava tremula e appena percettibile. Avevo la pelle tenera tenera e non immaginavo minimamente i cambiamenti che avrei fato durante i mesi estivi grazie a Giancarlo.

Io non sapevo nemmeno distinguere un panino all’olio da un panino all’acqua, non avevo idea delle proporzioni per fare i vari pesi e la gente mi faceva paura e, cosa non trascurabile, facevo orari veramente tosti: mattina e pomeriggio tutti i santi giorni tranne la domenica pomeriggio, che era libera. Giancarlo mi stuzzicava in tutti i modi, mi prendeva in giro, mi faceva scherzi di ogni tipo e, quando parlavo, faceva finta di non sentire, in modo da obbligarmi ad alzare la voce, vincendo così a poco a poco, la mia timidezza. Mi costringeva ad andare più veloce, facendomi correre a destra e a manca con ogni scusa possibile  e quelle mattine che arrivavo in negozio particolarmente assonnata, per regalarmi un dolce risveglio, diciamo così, mi tirava le teglie vuote della focaccia fra i piedi, facendomi si svegliare di colpo, ma anche provocandomi dei sussulti indimenticabili. Ci voleva veramente bene a me e  a mio fratello e ci trattava in tutto e per tutto, alla stregua dei suoi figli. Mi ricordo molto nitidamente il giorno in cui mi pagò per il primo mese di lavoro: mi chiamò nel laboratorio e mi fece avvicinare al banco di lavoro e ci appoggiò un foglio che poi scoprì essere la mia prima busta paga, tirò fuori dalla tasca delle banconote e cominciò a contare…cavoli non si fermava mai, e quando la somma delle banconote messe sul bancone coincise con quella indicata sulla busta paga, invece che fermarsi, mi guardò negli occhi e continuò a contare “perché sei stata brava e te lo meriti” e mi fece una carezza sulla guancia con quelle mani gigantesche che ora sapevo essere capaci di dolcezze disarmanti. Guadagnai così il mio primo milione e mezzo di lire, una cifra enorme per l’epoca e anche una divisa nuova di zecca. Avevo superato l’esame, e ora cominciavo pure a rispondere a tono quando mi faceva delle battute, non arrossivo quasi più, e ridevo di gusto quando mi faceva qualche scherzo.

Arrivavo a fine agosto bianca come un cadavere e stanca morta, giusto il tempo per riposarmi un po’ e si tornava a scuola, ma con la mia stupenda cartella rossa della Naj-Oleari, con tutto coordinato dal diario, all’astuccio, ai quaderni…persino la carta con cui fasciavo i libri era perfettamente coordinata. E nessuno a casa osava dire niente, erano soldi miei, guadagnati con fatica e quindi potevo spenderli come meglio volevo. Che soddisfazione.

Così sono passate le estati degli anni delle mie superiori, da aiuto dell’aiuto dell’aiuto commessa, mi sono ritrovata a essere la commessa storica, conoscevo tutti i clienti e le loro abitudini, scherzavo con tutti e ho sempre avuto una parola per ognuno, Giancarlo ormai non faceva più paura, anzi, era il mio “padre lavorativo” e il negozio con il suo laboratorio lo sentivo a tutti gli effetti come la mia seconda casa. Ogni anno a stagione finita giuravo e spergiuravo che sarebbe stata l’ultima, che io di farmi un mazzo così non ne avevo più nessuna voglia, che non avevo ammazzato nessuno per meritarmi una fatica simile, ma poi, vai a sapere perché, l’estate successiva mi veniva spontaneo andare a chiedergli quando dovevo cominciare, lui mi pizzicava la guancia e mi diceva di andare quando “mi sembrava giusto andare” che tanto ormai sapevo come funzionava. Proprio come una famiglia.

E oggi Giancarlo se n’è andato, un altro pezzetto del mio passato si è trasformato in memoria. Gian vivrà nel mio ricordo come la persona che mi ha insegnato la fatica del lavoro, ma anche la soddisfazione che da esso ne deriva, mi ha insegnato lo spirito di sacrificio, ma anche la serenità che si prova dopo una giornata di lavoro, mi ha fatto vincere la mia timidezza quasi patologica e sono assolutamente certa del fatto che, se oggi sono così come sono, una bella fetta di merito va anche a lui, che ventisette anni fa, ha visto qualcosa di buono dietro ad una ragazzina a cui faceva paura praticamente tutto e che quindi si meritava un pizzico di fiducia.

Mi mancherà, e mi mancherà tanto. Lo voglio ricordare così: alle 13, quando il negozio chiudeva lui salutava tutti, si metteva il grembiule sporco sulla spalla, accendeva una sigaretta, metteva due panini dentro ad un sacchetto e si incamminava verso casa con il passo un po’ strascicato dalla stanchezza. Guardandolo così, con le spalle un po’ curve si intuiva tutta la fatica di un mestiere tanto nobile come quello del fornaio. Un lavoro fatto di orari strambi, di notti che diventano giorni e giorni che si spendono dormendo. Le stelle hanno vegliato sul suo lavoro per anni, ora è lui che da più vicino le osserverà, riposandosi.