Un mondo completamente diverso dal nostro, non dico né migliore, né peggiore, dico solo diverso.
Tutto parla della magnifica ingegnosità degli uomini, ovunque ti giri hai la dimostrazione che l’uomo sa fare grandi cose, cosa c’è di diverso rispetto a noi? Che loro le cose se le cominciano, poi le finiscono anche; che se c’è da apportare una miglioria al tessuto urbano e se per farlo devono tirare giù un palazzo, loro lo fanno (agli abitanti sfollati danno un’altra casa, mica li buttano nelle fondamenta della nuova costruzione). Hanno un rispetto del bene comune imbarazzante e un rispetto delle regole totale. Il cartello dice che devi camminare a destra? Come tante formichine ci si mette in fila sulla destra e si lascia la sinistra libera per chi va di corsa.
Un punto a favore per gli italiani: molte delle grandi opere realizzate, un tunnel sotterraneo lungo due chilometri costruito nel 1972 che collega l’isola di Hong Kong a Kowloon Penisula, la funivia infinita di Ngon Ping (per arrivare in cima ci si mette 25 minuti e si passa sopra a fiumi, laghi, montagne, colline e crepacci) che vi conduce al monastero Po Lin dove si può ammainare il Tian Tan Buddha, una statua di bronzo, raffigurante appunto un Buddha alta 26 metri, un ponte infinito che collega la città al nuovo aeroporto, bhe, cari miei, sono tutte opere fatte da ditte italiane. A voi la scelta: rappresenteranno l’eccellenza ingegneristica italiana? O semplicemente sono quelle che hanno pagato di più per aggiudicarsi l’appalto? Io voglio credere nella prima.
Cosa raccontarvi di Hong Kong? La città di per se è piccola quindi in virtù dei suoi sette milioni di abitanti, si è dovuta sviluppare verso l’alto, e gli altissimi grattacieli altro non sono che enormi condomini che ospitano migliaia di appartamenti (considerate che un appartamento medio è di circa 35 metri quadrati).
È tutto un trionfo di centri commerciali, grandi marchi (ma grandi grandi) che hanno boutiques seriali che sono prese d’assalto dal mattino alla sera e comprano come matti. Poi le cose che comprano non si sa dove e quando le mettano, considerato che non sono proprio campioni di eleganza e stile…
Non sono un popolo gentile, non chiedono permesso, non dicono grazie, non cedono il passo, niente di niente, parlano un inglese tutto loro e se non capisci: arrangiati, mica ti abbiamo chiesto noi di venire. Questo in sostanza. E qui si spiega la necessità di imporre così tante regole: hai idea di cosa succederebbe se sette milioni di maleducati venissero abbandonati a loro stessi?
Alcuni scorci sono veramente affascinanti: Aberdeen e Tao I sono due villaggi di pescatori che riportano la memoria e tempi passati, il primo a dire il vero ormai è fortemente commercializzato e a misura di turista, il secondo invece conserva ancora tutto il suo fascino. Repulse bay: ospita il Santuario di Kwun Yam, una galleria piuttosto eccentrica di divinità a cui chiedere ogni tipo di grazie e favore. Il mercato notturno di Temple Street merita sicuramente la visita che noi per motivi di tempo non siamo riusciti a fare.
Da non perdere la Simphony of Lights: uno spettacolo di luci e suoni che si ripete tutte le sere alle venti. Protagonisti di questo spettacolo sono appunto i grattaceli di Hong Kong che con le loro luci mettono in piedi una vera e propria scenografia in pieno stile “guerre stellari”. Il posto ideale per goderselo è l’Avenue of Stars, un omaggio di Hong Kong alle sue star del cinema, bellissima passeggiata che costeggia tutto il fiume, da farsi preferibilmente dal tramonto in poi.
Se devo muovere una critica a questa città è che essendo un cantiere in perenne evoluzione, manca la memoria, il fascino del tempo passato, perché come vi ho detto, loro buttano giù il vecchio e ricostruiscono, quindi è inevitabile che alcune cose vadano perdute, ed è un peccato, ma questo è lo scotto da pagare per avere a disposizione una delle città più efficienti al mondo, dove tutti sembrano avere uno scopo ben preciso, una meta prefissata che bisogna raggiungere prima che il sole tramonti.
Proprio come in un formicaio. Appunto.
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Sei brutta e cattiva
Nutro forti sospetti circa la simpatia delle Neo Zelandesi.
Già parlano un inglese tutto loro dove c’è una maiuscola all’inizio del discorso e un punto alla fine, se non capisci quello ci sta in mezzo, fondamentalmente non è un problema che le riguardano.
Se poi ti capita di fare un check in per Hong Kong con una hostess che parla cino-inglese, in un aeroporto in cui è difficilissimo sia entrare che uscire, bhe auguri…
Ecco i fatti: il nostro biglietto elettronico prevede 2 pezzi di bagaglio e testa “free” ossia senza peso….prova tu se ci riesci a farglielo capire, lei voleva farci pagare, tenetevi forte 776 dollari e spicci di “extra charge”. Ok che il dollaro neozelandese è meno pesante del dollaro americano, ma resta comunque una cifra folle. A Perazzo gli si è arrotolata la lingua e a momenti la sbrana (vecchie storie di somiglianze con persone antipatiche) io a momenti svengo. Ma ecco la sua brillante soluzione: tira fuori due borse del tutto simili a quelle della Coop e ci suggerisce di riempire con gli oggetti più pesanti. Bene, e poi? E poi le imbarchiamo insieme alla valige, nella stiva. Bene, te sei matta. A salvare la situazione il manager del customer service, che il destino ha voluto che passasse di lì, legge i nostri documenti, problema risolto, bagagli imbarcati, Perazzo e io ci prostriamo davanti a lui come due gheishe riconoscenti.
Ultima domanda: si, possono avere i posti dalle uscite di sicurezza? Certo che sì, basta chiedere…e pagare 100 dollari americani. Bene, ti ho già detto che sei tutta matta? Lasciamo stare.
Lei si vendica mettendoci praticamente sulla coda dell’aereo, fila 65, ma con, cavolo che ci hai spillato quasi 800 dollari. Strega!
A seguire, controllo passaporto, controllo dogana, controllo metal detector, ispezione nella borsa… mamma mia che stress, ma alla fine l’abbiamo spuntata noi. Tiè!
Prossima fermata Hong Kong.
Facciamolo Mahu
Noi avevamo semplificato il tutto definendolo “o femminiello”…però era uno solo… Manuel. Poi si è aggiunto Danitha, poi un altro, Maheta, mi pare, e poi arriva Angelo…
Ma quanti sono?
O la Polinesia è il paradiso dell’omosessualità, oppure veramente non si spiega l’altissima concentrazione di queste figure gentili e servizievoli che abbiamo trovato nei vari hotel che abbiamo visitato. Sono assolutamente a cavallo fra il maschile e il femminile, non si possono definire donne in quanto i tratti sono palesemente maschili, non si possono definire uomini perché i modi di fare e il tono della voce sono femminili (a dire il vero, io compresa, pagherei per avere un decimo della loro grazia).
Anche il loro modo di vestire è “ibrido”: non è sfacciatamente iperfemminile come nella transessualità ma neppure costretto in abiti maschili. Quelli che abbiamo incontrato noi, indossavano un lungo pareo legato sui fianchi nei toni del beige e una camicia in fantasie floreali dove l’unico dettaglio femminile erano le maniche a sbuffo. Un fiore fra i capelli, chi li aveva acconciati in maniera femminile e chi impomatati di gel, qualcuno indossava collane di perle tahitiane per coprire il pomo d’Adamo, alcuni avevano pure un filo di trucco, altri la barba fatta di fresco. Insomma un caleidoscopico mix fra maschile e femminile.
Parlandone con un altro turista incuriosito come noi da questo strano mondo, ci viene svelato l’arcano e cioè che è nella tradizione Polinesiana allevare un figlio, normalmente il quinto o il settimo (ma non esiste una regola fissa), come se fosse una figlia era la prassi. Indosserà abiti femminili sin da piccolo e gli verrà insegnato ad accudire la casa e i bambini. Non sarà più un uomo o una donna, sarà un Mahu. Tre le ipotesi spiegare questo fenomeno: la prima è che lo facevano per preservare qualche maschio, visto le ingenti perdite nella lotta fra clan, la seconda ipotesi è che tutto sommato faceva comodo avere un aiuto domestico, la terza è che era un modo sicuro di controllare le nascite.
Una volta adulti venivano assunti nelle case dei nobili (Arii) come maggiordomi e vivevano un’esistenza più che decorosa.
A rovinare il tutto come sempre ci abbiamo pensato noi occidentali, e quando soldati e marinai sono giunti in Polinesia, il Mahu, cominciando a prostituirsi si è trasformato in Rae Rae, molto più sfacciato e femminile. E il resto è storia dei nostri giorni.
Quindi non è che in Polinesia ci siano più omosessuali che altrove, la differenza sta nel fatto che qui, per tradizione culturale non si nascondono, ma anzi vivono un’esistenza perfettamente integrata nel tessuto sociale. I Mahu vengono assunti nelle strutture turistiche perché gentili ed educati. Quindi se vi capiterà di andare in Polinesia e incontrerete un Mahu non ridacchiate alle sue spalle e non guardatelo con eccessiva curiosità, urtereste solo la sua sensibilità, come per qualsiasi essere umano.
Cose da fare a Le Taha’a
In ordine sparso:
Fare il pranzo di Natale con pesce crudo, cocco, ananas sorseggiando un cocktail
Dormire con tutte le tende aperte per essere i primi a vedere sorgere il sole
Fare il bagno dal proprio pontiletto MENTRE sorge il sole
Dimenticarsi l’esistenza del phon asciugacapelli
Dimenticarsi che esiste uno strumento che si chiama orologio
Dimenticarsi parole come: E-mail, Sms, Facebook, cellulare
Passeggiare senza meta mano nella mano
Giocare con i granchi
Scottarsi con il sole
Raccogliere conchiglie
Vedere arrivare la “bassissima marea”
Mettersi un fiore appena colto fra i capelli
Commuoversi davanti a un tramonto
Essere i soli due italiani in tutta l’isola
Parlare inglese, francese e polinesiano
Guardare arrivare un acquazzone tropicale
Fare il bagno DURANTE l’acquazzone tropicale
Eccitarsi come bambini vedendo una famiglia di mante passare a un metro da te
Bersi una birra al bancone del bar della piscina con il sedere a mollo
Bensi una birra nel patio del bungalow ridendo come scemi
Bersi una birra nel patio del bungalow sotto il diluvio ridendo come scemi
Fare snorkeling in un metro d’acqua
Fare snorkeling in un metro d’acqua con i pesci che ti circondano perché hai del pane per loro
Fare snorkeling in un metro d’acqua assediati dai pesci che ti mordicchiano le mani dove tieni il pane
Scattare mille foto sapendo benissimo che 950 verranno cancellate
Ordinare da mangiare senza sapere con precisione cosa stai ordinando
Fare commenti sugli altri ospiti dell’hotel e ridere a crepapelle tanto loro non capiscono l’italiano
Cercare una fantomatica foresta di mangrovie, non trovarla e farsi divorare dai mosquitos
Ridere ridere ridere
Abbracciarsi abbracciarsi abbracciarsi
Essere felici felici felici
Tahiti e Raiatea
Ancora con gli occhi pieni e il cuore gonfio delle meraviglie dell’Isola di Pasqua ( andateci andateci andateci), ci prepariamo a vivere la parte relax del nostro viaggio. All’aeroporto di Hanga Roa conosciamo Andrea un ragazzo di Ancona che viaggia da solo e fa un giro simile al nostro, lo incontreremo probabilmente di nuovo sul volo per Aukland. Vi faremo sapere.
Il viaggio per Raiatea si divide in due tranches: Hanga Roa- Papeete, Papeete-Raiatea. Sulla prima parte niente da raccontare, ma sulla seconda…dai su, cominciamo.
Dentro all’aeroporto incrociamo il secondo ubriaco tirato giù di peso dall’aereo del nostro viaggio, però stavolta è poco di più che una bambina, shorts fucsia e top giallo, due codini con elastici colorati e un faccino che stride miseramente con il suo stato di pesante ubriachezza. A un certo punto crolla sui divanetti nella sala d’aspetto del gate per gli imbarchi, scomposta e sgangherata come una bambola di pezza, quando la hostess la va a svegliare, dopo aver chiamato più volte il suo nome al microfono, la accompagna sull’aereo e tempo un minuto, le vediamo tornare indietro…niente aereo per lei oggi.
Partiamo da Papeete con quella che è a tutti gli effetti una corriera con le ali, sotto una tempesta di pioggia, vento, fulmini e saette, ci sono alternative? No. Appunto, saliamo.
All’orizzonte si vede che il cielo si sta rasserenando (ma poco), il tempo di prendere quota e dobbiamo fare la prima fermata: Moorea. Noi scendiamo alla prossima. L’aeroporto di Raiatea è da morire dal ridere, praticamente una striscia di terra disboscata e un garage a uso arrivi e partenze. Ma è il ritiro bagagli la vera perla: una saracinesca si alza e su un trespolo uguale a quello che nei supermercati si usa per mettere le cassette di frutta e verdura, in tempo reale, un omino prende le valige dalla stiva dell’aereo e le ce le appoggia sopra, tu prendi le tue e te ne vai.
Dopo un’ora di corriera con le ali, ci tocca mezz’ora di motoscafo, ma qui la musica comincia a cambiare: poltroncine in pelle bianca imbottite, equipaggio in divisa linda e lustra… mmmmhhhh, interessante…
A farla breve: arriviamo in Paradiso, e qui mica ti danno una collana, no no, cari miei, qui siamo passati diretti all’upgrade, una corona di fiori e foglie. Mi piace e mi adeguo. Ci viene offerta una bibita rinfrescante (sempre meglio) e una salvietta fresca imbevuta di una soluzione con un profumo paradisiaco (sempre sempre meglio). Incaricato della nostra accoglienza è Manuel detto da noi “o femminiello” inutile che vi spieghi il perché… vi do un indizio: un fiore nei capelli e un parlare tutto mellifluo e smielato (scopriremo poi però, che qui tutti parlano così… Sembrano rincretiniti, ma è bello) e la manina sempre a mezz’aria. Comunque è adorabile. Ci incamminiamo sul pontile da cui si diramano gli ingressi ai bungalow, il nostro è l’ultimo in fondo, davanti a noi solo il mare. Un posto fantastico, non si può aggiungere altro. Il nostro pontiletto privato per fare il bagno, il nostro patio privato per stare soli al fresco, il nostro solarium privato per prendere il sole come ci pare, e poi la perla: un oblò ai piedi del letto con un vetro apribile da cui possiamo guardare il fondale marino senza scomodarci, ovviamente privato pure questo.
Siamo ufficialmente insigniti della carica di Honey Mooners, a suggellare la cosa troviamo in camera un cestello di ghiaccio con champagne e cioccolatini, fuori si scatena un acquazzone pazzesco, noi ce lo godiamo dalla nostra finestra con vista sulla baia.
Benvenuti in Polinesia.
Maururu
(che vuol dire grazie in polinesiano, e per dirlo alla loro maniera, bisogna pronunciarlo con la stessa inflessione con cui Tosca Daquino ne “il ciclone” nella scena del ristorante dice “piripiiiii” – ecco bravi, avete capito, ora mettete pure giù la manina).
Rapanui
Tre chilometri e ottocento metri, poi basta che il pilota vada lungo, ti ritrovi in mare e hai percorso l’isola in tutta la sua larghezza. Una pista, due aerei al giorno, un rullo per il ritiro bagagli, nessun controllo passaporto, nessuna dogana, niente di niente.
Ci viene incontro una elegante signora che ci porge due collane di fiori come benvenuto, è Marite, la nostra guida privata che ci porterà in giro per l’Isola e c’è ne svelerà i suoi segreti.
Marite guida un fuoristrada in maniera agghiacciante, parla, si distrae, saluta dal finestrino e manda baci a tutti, ci racconterà poi che è dal 1976 che vive sull’isola e che conosce praticamente tutti i suoi cinquemila abitanti, accende la radio e canta, ha un’eleganza nei modi che le perdoni tutto, anche il fatto che a momenti per salutare un passante, perde il controllo del veicolo e prende in pieno un marciapiede. Noi moriamo dallo spavento, lei se la ride.
Molliamo letteralmente al volo i bagagli in hotel e partiamo alla scoperta della cava dove venivano tagliate le pietre per scolpire i Maoi. La cava chiude alle 18, che a dirla tutta sono passate da un pezzo, lei dice che se è destino che noi vediamo i Maoi oggi, la cava Rano Raraku sarà ancora aperta. Fatto sta che è aperta. E Marite ci comincia a parlare di karma, e noi cominciamo a crederle….
La magia di quest’isola è anche questa: il tempo si ferma, e nel suo silenzio, nella grandiosità del Pacifico e delle sue onde, nella bellezza delle sue forme scolpite nella roccia lavica, nelle mandrie di cavalli lasciati allo stato libero, nei declivi dolci delle colline verdi, l’aria calda ma pulita, tutto il nostro essere sembra rigenerarsi. Un posto che invoca il silenzio, un posto veramente magico.
Come un’incantatrice di serpenti, Marite irretisce il guardiano del sito archeologico, mentre a noi spiega il giro che dobbiamo fare, cosa guardare e come, il resto della storia ce lo racconterà dopo in macchina. Ok. Adesso, come posso raccontarvi in maniera plausibile la sensazione che abbiamo provato davanti a queste statue in pietra che fino a due secondi prima avevamo visto solo nei documentari? Esatto non ci sono parole, fascinazione, paura e mistero, un brivido mentre scatti la prima foto, perché ti sembra quasi impossibile che tu sia li, è tutto troppo bello.
Risaliamo in macchina un paio di curve sgangherate e finalmente ci siamo, stiamo per entrare nel sito più conosciuto dell’Isola di Pasqua, le sue statue Moai hanno fatto il giro del mondo in lungo e in largo, e ora loro sono li, vista l’ora tarda, solo per noi. Benvenuti a Ahu Tongariki con i suoi 15 giganteschi Moai. A me viene il nodo in gola e mi sento le gambe molli, Luca ha gli occhi sgranati e continua a scattare foto, Marite ci racconta tutta lo loro storia (ve la risparmio, nel caso, c’è internet) ed è proprio in questo posto che ti viene in mente la parola: esoterico. Siamo nel 2012 ma in questo sito il tempo ha perso ogni sua valenza, potremmo essere in un anno qualsiasi, il panorama sarebbe identico così come le sensazioni che scatena.
A malincuore torniamo in hotel, la cena ci attende. A dire il vero siamo in netto ritardo sull’orario – ritmi polinesiani – ammicca Marite, e non sembra affatto preoccupata. Ha ragione lei, anche questa volta… diavolo di karma positivo.
A preoccupare me, invece, è un gigantesco insetto che a mia insaputa mi passeggia fra i capelli e quando decise di librarsi in volo, il suo “bzzzzzz” mi fa fare un salto sulla sedia, faccio quasi cadere per terra tutto quello che era sul tavolo, la cameriera mi dice che non è pericoloso, e chissenefrega, è nero, peloso, ha le ali è grosso e soggiornava nei miei capelli, direi che può bastare. In camera mi avvolgo nella zanzariera: meglio essere prudenti.
La mattina del 24 Marite ci viene a prendere puntuale: è tutta in fibrillazione perché è la Vigilia di Natale, ci parla di sua figlia e sua nipote, con la scusa che dobbiamo bere molto ci porta nel supermarket più antico dell’isola, (in verità doveva prenotate le fragole per la cena della vigilia… furbona di una Marite). Finita la spesa ci catapulta nella storia di Rapa Nui: la leggenda dell’Uomo Uccello e tutti i suoi luoghi: la grotta Ana Kai Tangata, il Villaggio di Orongo e il cratere del vulcano Rano Kau con un diametro di 1.6 kilometri, ora è un lago di acqua dolce ed è veramente impressionante. Così come è impressionante la scogliera dove si svolgeva la competizione fra i temerari che ambivano al potere sull’isola, una parete verticale frastagliatissima che scendevano a rotta di collo, poi dovevano nuotare per circa un chilometro nell’Oceano, ovviamente feriti (perchè feriti? ma l’avete vista la parete da cui sono scesi?) quindi perdevano sangue e quindi circondati dagli squali. Arrivati finalmente sullo scoglio dove si trovava il nido, il primo arrivato prendeva l’uovo e si rifaceva tutta la tiritera a ritroso: Oceano, squali, scogliera (stavolta in salita). Il primo arrivato dava diritto alla sua famiglia di governare sull’isola per un intero anno. Trascorso l’anno, altro giro altra corsa, con buona pace del povero uccello che gli rubavano tutte le uova. La giornata trascorre fra siti archeologici pazzeschi e piattaforme cerimoniali di varie epoche, il tutto spiegato in una lingua tutta speciale: l’itafragnolo, un mix perfetto di italiano, francese, spagnolo.
Proprio nel posteggio di uno di questi siti scopriamo di avere bucato, Marite non fa una piega: molla macchina e chiavi ad altre due guide e ci accompagna nella nostra visita. Quando torniamo scopriamo che la macchina è fuori uso, non solo ha bucato ma ha piegato pure un fantomatico braccetto (vuoi vedere che il marciapiede di ieri…), calma e ritmi polinesiani, saliamo su un altro pulmino di turisti e arriviamo dritti dritti al luogo del pranzo. Grande Marite, che non si scompone davanti a niente.
La giornata purtroppo (ma purtroppo veramente) volge al termine, giusto, il tempo di una sosta su una spiaggia di sabbia bianca per bere insieme una bibita fresca e conoscersi un po’ meglio. E poi il gran finale: visita a Ahu Akivi, sito archeologico ubicato nel centro dell’isola, luogo circondato di leggende relative ai suoi sette Moai (storie di occhi veri e finti).
Baci e abbracci, lasciamo Marite ai suoi festeggiamenti natalizi, noi con le nostre collanine di conchiglie al collo, partiamo alla volta dell’aeroporto, cenone della vigilia a bordo. Quando atterriamo a Thaiti è ancora la vigilia di Natale, magie del fuso orario.
Isla Magdalena
Condizioni meteo: avversissime
Sveglia: all’alba (per darvi l’idea, la colazione ce la daranno dopo l’escursione)
Umore: alto
Dress code: solito bardamento antifreddo, antiacqua, antitutto. Da notare che questa crociera ci ha indotto a un progressivo imbarbarimento al quale il Perazzo fatica ad adeguarsi… qui si vive in tuta e i cambi d’abito sono ridotti al minimo, sospese le operazioni di trucco e parrucco, una coda e via… Quel liberation!
Da lontano la Isla Magdalena ci appare come un isolotto privo di qualsiasi forma di vegetazione, un faro in cima, e basta. Si vedono migliaia di punti che si muovono goffamente, un sentiero delimitato da corde, qualche cartello di cui, al momento ignoriamo il contenuto, un molo.
Piove, fa freddo e tira pure vento, il mare ha pietà di noi, solo qualche onda un poco più dispettosa delle altre. Ormeggiamo nel pontiletto e senza neanche il tempo di rendersene conto, a pochi passi da noi, migliaia di pinguini ci offrono uno spettacolo meraviglioso. Sono dappertutto e i cartelli di cui prima ignoravano il significato, ci indicano il comportamento che dobbiamo assumere. Prima regola: i pinguini hanno la precedenza, possono arrivare da destra, da sinistra, da sopra, da sotto, da davanti e da dietro, non ha importanza, al loro passaggio il mondo si ferma.
Seconda regola: don’t pet pinguins. Tradotto letteralmente: non fare coccole ai pinguini. Già, perché la tentazione è forte, fortissima, irrinunciabile. Sono bellissimi, e poi colpevoli film come “La marcia dei pinguini” e “Happy feet” ci hanno resi tutti vittime di un transfer emotivo, tale che, portarsi un pinguino a casa sembra quasi normale.
Terza regola: non dare da mangiare ai pinguini. E questa è facile.
E così, nel giro di pochi istanti ci troviamo catapultati in un mondo parallelo dove noi siamo gli ospiti, gli spettatori tollerati dello spettacolo della natura.
Pinguini che se le suonano di santa ragione, pinguini che nelle tane covano le uova, pinguini che difendono le tane dai gabbiani cattivi, mamme pinguino, e, meraviglia delle meraviglie, i cuccioli di pinguino, o pinguinini (nome poco scientifico, ma molto efficace).
Ed è divertente da morire vedere questi esseri alti quaranta centimetri o poco più, rendere immobili al loro passaggio, esseri umani ben più grandi. “Fermi tutti, attraversamento pinguini” e nessuno osa più muovere un passo.
Siamo ormai semi congelati quando arriva il momento di risalire a bordo, giusto il tempo di finire di inzupparsi con gli spruzzi delle onde ed è ora di chiudere le valige. Questa incredibile avventura nella parte più australe del mondo volge al termine.
Next stop: Easter Island
Ghiacciaio Aguila
Devo essere onesta e confessarvi una cosa: raccontarvi la straordinaria esperienza di visitare un ghiacciaio perenne indescrivibile nella sua bellezza, stando comodamente spaparanzata su un lettino a bordo piscina con vista su palme, mare incontaminato e sabbia corallina, ha veramente dell’incredibie e mi rimanda alla straordinarietà del viaggio che stiamo facendo.
Del ghiacciaio si diceva…
Dunque, esattamente una settimana fa ci stavamo bardando di tutto punto per affrontare l’ennesima discesa in gommone per raggiungere il ghiacciaio Aguila. In ordine di vestizione: calzamaglia in microfibra, fuseau termico, doppio calzìno, pantalone impermeabile, canottiera, t-shirt manica lunga, pile, giacca imbottita, sciarpa, guanti, berretto, scarpe, da trekking, giubbotto di salvataggio, zaino. Adunata sul ponte quattro per, come ormai siamo abituati a sentire, “…concordare le operazioni di sbarco”.
Il ghiacciaio si svela poco per volta, via via che la nave procede lenta sullo specchio d’acqua, a nascondere parzialmente la vista un piccolo promontorio che chiude la piccola laguna formata dallo sciogliersi del ghiacciaio, la guida ci ha spiegato che ci sono tracce fossili che dimostrano che chissà quanti anni fa, il ghiacciaio arrivava al mare (si parla di circa un chilometro, tanto per farsi un’idea). E poi senza alcun preavviso, (tipico delle cose più belle non avvisare) eccolo: gli aggettivi che saltano subito in testa sono: bellissimo, imponente, magnifico, ipnotico. Una montagna di ghiaccio, di un bianco abbagliante, con incredibili riflessi blu impossibili da catturare con la macchina fotografica, ci si può solo riempire lo sguardo e poi rinchiuderlo nello scrigno dei ricordi più preziosi. Alla sua destra una grotta che chissà cosa nasconde al suo interno, a sinistra una piccola ma vigorosa cascata che sfocia nella laguna antistante. A noi ci chiedono di restare a una distanza di sicurezza che cerchiamo in tutti i modi di eludere (con qualche inaspettato successo), perché non è raro che pezzi di ghiaccio si stacchino e cadendo in acqua potrebbero generare un’onda anomala, insomma non un bello scenario, anche se….Come bambini al Luna Park Luca e Marcello (la parte maschile della coppia che abbiamo conosciuto) cominciano a saltare nell’inutile speranza che le vibrazioni prodotte dai loro salti possano provocare il temuto e agognato distacco. Vedere due adulti, grandi grossi e vaccinati comportarsi come due ragazzini, mi fa riflettere sul fatto che la facilità di stupirsi e meravigliarsi, tipica dei bambini, in realtà non ci abbandona mai, mi aspetto che da un momento all’altro quei due, comincino anche a saltare in fantomatiche pozzanghere, mentre io mi siedo per terra in silenzio a guardare e Chiara (la parte femminile, vedi sopra) vaga come ipnotizzata.
Scattiamo foto su foto, raccogliamo sassi e conchiglie e il percorso a ritroso sul ciglio della piccola baia per risalire a bordo, avviene in silenzio, tenendosi per mano, sono troppo piena di quella vista meravigliosa e ho paura che se apro bocca, qualche piccolissima sensazione possa evaporare al contatto di quell’atmosfera incantata. Mi volterò spesso a guardare il ghiacciaio e ogni volta vi vedrò qualcosa di diverso: osservando due tagli verticali e paralleli a sinistra del corpo principale vedo i segni degli artigli di un’aquila gigantesca e fantomatica, in alto, dove il bianco del ghiaccio sfiora l’azzurro del cielo, vedo, nelle cime frastagliate e aguzze, le guglie delle torri di un castello incantato, più in basso, degli spuntoni più corti, sembrano formare una mano che intima l’altolà. Mi viene in mente una frase che diceva mio padre: le cose belle bisogna guardarle da lontano. Aveva ragione, come sempre.
Risaliamo a bordo appagati, e domani ci attende un’altra fantastica avventura: Isla Magdalena, e i suoi quarantasettemila pinguini.
Capo Horn
Per non farci mancare niente.
Cabina 410 , la Stella Australis é un nave deliziosa, piccolina, intima e raccolta; ci immaginavamo un’infornata di reduci del Vietnam, quello più informa con una gamba sola e il deambulatore, quando scopriamo con stupore che l’età media si aggira intorno ai 50 anni e la presenza di italiani, come d’abitudine, massiccia. Arrendiamoci, siamo il prezzemolo del mondo.
Un dettaglio che a me ha colpito molto: a bordo siamo, in tutto, ventuno nazioni e quando a cena ci hanno chiesto di cantare “tanti auguri a te” per la più piccola passeggera imbarcata che festeggiava i suoi quattro anno e ognuno l’ha fatto nella propria lingua, beh a me un pochino di pelle d’oca é venuta, ma riconosco anche che è un periodo che io mi commuovo per niente.
Con un piccolo briefing ci introducono, la mitica escursione a “Cabo de Hornos”… bellissima non vedo l’ora, solo un unico vincolo: le condizioni del mare che se sarà troppo agitato, a Cabo de Hornos si incontrano due Oceani, il Pacifico e l’Atlantico, che non sono propriamente come l’Aveto e l’Entella, e se verranno quindi meno le condizioni di sicurezza, il Capitano potrebbe non dare il via alle operazioni di sbarco. Il pensiero non ci sfiora nemmeno.
Detto fatto, ci svegliamo che la nave sembra il battello del Luna Park, si balla che é un piacere, rollio e beccheggio, non manca niente, spruzzi che arrivano fino al quarto ponte, gente attrezzata di tutto punto con tanto di giubbotti di salvataggio di ordinanza indossati ( per lo sbarco sfumato a Capo Horn, non per il mare, che poi vi preoccupate) che vomita in ogni angolo, me compresa. Credo di morire, mai, ribadisco mai, stata così male, sono devastata, a un certo punto crollo. Al risveglio il mare pare essersi dato una regolata, io sto meglio, ma al primo segnale di rollio, mi fiondo in reception e prendere una mitica pastiglietta ( tanto ne hanno a secchiate). Giornata recuperata.
Capo Horn lo vedrò nelle fotografie che ha scattato Luca sul ponte della nave…. Che amarezza.
Altro giro altra corsa, al pomeriggio si sbarca a Baia Wulaia, che sbarcare dalla nave è già tutto un programma: bisogna bardarsi di tutto punto, giacca impermeabile, pantaloni impermeabili, scarpe da trekking, pile, berretto, guanti, triplo,calzino e a concludere l’opera il giubbino di salvataggio: siamo oltremodo ridicoli, ma s’ha da fare, tantovale arrendersi subito. Ci issano sui gommoni con livelli di grazia che oscillano dal pachiderma alla libellula ubriaca, dimenticavo: piove e tira vento. Yuppie!!!
Scopriamo, a nostre spese, che l’escursione definita “livello medio” è in realtà un percorso impervio in salita, reso ancora più ostile dal fango fino alle caviglie, pietre scivolose e pozzanghere. Attraverseremo ponticelli nel bosco veramente deliziosi se non fosse che subito dopo per risalire bisogna letteralmente aggrapparsi a delle funi legate agli alberi e chi non lo fa, semplicemente cade e precipita nel fango.
Alla prima salita ne abbiamo persi tre (i più furbi? Il dubbio ancora, mi tormenta), alla seconda un geniaccio in jeans prende un allungone che a momenti arriva dritto al mare, risultato: fradicio e sporco di fango ovunque. Alle terza pure la guida si è arrotata in terra sbattendo il sedere scolpito a botte di tortellini bolognesi (la nonna emigrata era appunto di Bologna) fatti però a Ushuaia, dettagli. L’umore fra noi sopravvissuti è tuttavia alto, anche quando la guida ci racconta leggende incestuose di fratelli trasformati in picchi perché si sono baciati.. mah.. vai a capire, ciò che lei trova romantico a me fa venire i brividi, sarà una questione di punti di vista, oppure lei, è figlia unica e quindi non sa di cosa parla. Ci mostra e spiega ogni singola fogliolina, ogni singola bacca, ogni singolo tronco d’albero, brava, niente da dire, ma un pochino pesantuccia, però è giovane ed entusiasta, non possiamo deluderla, continuiamo a mostrare un interesse degno delle giovani marmotte… come siamo bravi a fingere. E siamo ancora più bravi a scendere quando scopriamo che ci daranno a scelta, o della cioccolata calda o whiskey on the rocks, sai ci sono ben 2 gradi…
Si torna a bordo, e in quella che ormai ho capito essere la crociera dei personaggi incredibili, vuoi non metterci un “gommonista” (lo so che non esiste questa parola, ma rende, quindi prendetela per buona) cabarettista, che prima finge di aver finito il carburante e lancia un “may-day”, poi finge di raggiungere la nave sbagliata, poi simula una perdita di memoria e, davanti alla nostra, tira dritto, e se la ride che è un piacere. Però è simpatico e quindi ridiamo tutti.
Per concludere l’opera, al rientro per toglierci il fango di dosso ci hanno lavato con la manichetta dell’acqua, quella che hanno usato anche nel film “Rambo”, e poi finalmente raggiungiamo la nostra cabina.
Riscaldati, lavati, asciugati e profumati è arrivato il momento della rivincita morale: aperitivo. Open bar = Birra (sì ma mica una) + patatine + olive + nuovi amici. Un’equazione perfetta.
Il passaporto scomparso
Eppure ce l’avevano detto: Buenos Aires è una città bellissima, cosmopolita, ricca di storia e interessi, MA i turisti sono spesso bersaglio di scippi e furti.
Detto fatto. Stamattina dopo una dormita secolare e una pantagruelica colazione, ci prepariamo per fare il tour della città quando un piccolo dubbio accompagnato da relativo senso di angoscia, si impossessa della sottoscritta: ma dove è il mio passaporto?
A seguire il panico. In rapida successione:
Rovescia la stanza: niente.
Disfa le valige ( tutte): niente.
Corri in reception dove il giorno prima il passaporto è stato registrato, e chiedi aiuto prima in italiano, poi in spagnolo, poi in inglese: niente.
Il passaporto che ieri è entrato in hotel, oggi è sparito…
Cosa si fa? Dopo la crisi isterica intendo….
Luca mi consola: beh, dai, ci rimpatriano e fine dei giochi…
Io al solo pensiero, mi viene da buttarmi nel Rio della Plata e sperare che ci sia in giro qualche coccodrillo affamato e che faccia di me il suo pranzo.
Chiamo in Italia, mi dicono di chiamare subito in ambasciata, chiamo e mi finisce il credito, scendiamo in reception: di quattro non ne fanno uno, aiuto inutile e svogliato. Sequestro un telefono, compongo numeri a caso…mi viene da piangere, sono disperata… E qui arriva in soccorso il primo angelo della giornata ( ce ne saranno tanti, per chi ci crede). Una centralinista del call center dell’ambasciata mi spiega che lei fa partire solo messaggi di aiuto generici e che non c’è nessun operatore che può aiutarmi…messa al corrente della mia situazione ( la parola magica è “viaggio di nozze”) però mi dice di chiamare un certo numero e di non rivelare mai la fonte, qualora qualcuno me l’avesse mai chiesta.
Chiamo…scopro così di aver chiamato la segreteria del Console Italiano dell’Ambasciata italiana. L’angelo numero due mi spiega cosa fare e dove andare, e prova a tranquillizzarmi…su quest’ultima prova fallisce…solo Dio in persona forse poteva riuscirci.
Alle 9, appuntamento in reception con l’angelo numero 3: Aleyandro, la nostra guida per il tour privato della città. Gli raccontiamo i fatti, lui non fa una piega e ci prende per mano.
Primo passo denuncia di furto al commissariato di polizia più vicino all’ambasciata, mette in atto alcuni escamotage per velocizzare il tutto, mi fa da interprete, firma con me, per lui un’illustre sconosciuta, il verbale di denuncia, ci accompagna in Ambasciata con la promessa di,aspettarci fuori ( e lo farà veramente!)
In Ambasciata pare che gli angeli si siano dati appuntamento ( a parte quelli italiani contattati da Buenos Aires, loro avevano finito il turno). Il primo, si attiva in tutti i modi possibili, ma c’è da aspettare un’ora per un nullaosta dall’Italia…e aspettiamo…
Annunciata da una musica celestiale arriva lei, la creatura più meravigliosa del firmamento che dice “facciamole un passaporto nuovo con procedura d’urgenza, l’autorizzo io” e tutti si danno da fare per il mio passaporto nuovo di zecca. Un intero Consolato sta lavorando per me, mi viene da piangere dal sollievo, dalla gioia, dalla gratitudine: ce l’abbiamo fatta.
Mentre stringo tra le mani il mio passaporto ci viene incontro una signora gentile, dice che ci vuole salutare perché ha saputo siamo di Chiavari e lei tanti anni fa ha vissuto a Chiavari in Via Nino Bixio, dietro le lenti degli occhiali si vede che ha gli occhi lucidi.
Usciamo dall’Ambasciata con una strana sensazione addosso: se il nostro viaggio può continuare lo dobbiamo solo a queste persone straordinarie, che uscendo un pochino dal loro ruolo ordinario, hanno messo insieme una squadra fantastica che ha raddrizzato una situazione drammatica nel giro di due ore…da soli non ce l’avremmo mai fatta.
Mi sono rimaste appiccicate addosso le parole del funzionario “per un connazionale in difficoltà, facciamo questo e altro”… Questo ci hanno detto a Buenos Aires, mi domando se in Italia ci avrebbero detto la stessa frase.
Ora andiamo a berci una cerveza e a buttarmi in piscina. Hasta luego.