Pane, farina, fatica e ricordi

“mi mandi un po’ la Manuela che vediamo cosa sa fare”.

Tutto ebbe inizio così, la prima esperienza lavorativa della mia vita, non avevo ancora compiuto quindici anni, promossa a pieni voti con largo anticipo, ma non ero una secchiona, ci tengo a precisarlo: ottimizzavo le mie performances studentesche, facendo in modo di avere tutte le medie fatte, finite e pronte per il 31 maggio, così poi potevo andare a scuola come e quando ne avevo voglia. Era il tacito accordo con i miei, potevo smettere di andare a scuola a fine maggio, però era scontato che fossi promossa, e pure con una buona media. L’essere rimandati, o peggio ancora, la bocciatura, non erano risultati nemmeno da considerare, così era e stop, fine discussione.

L’estate del 1987 fu così l’estate che sancì a pieno titolo il mio ingresso nel mondo del lavoro, anche se solo nei mesi estivi. Mi ritrovai a fare l’aiuto dell’aiuto, dell’aiuto commessa nel panificio di paese, ai tempi ridente località turistica del Tigullio (ma veramente non così per dire), che d’estate moltiplicava a livello esponenziale i suoi abitanti e quindi, per chi voleva, c’era lavoro da vendere, ed era normale per tutti i miei coetanei avere un lavoro estivo.

Il proprietario del panificio era un signore gentilissimo ma di pochissime parole, credo, anzi ne sono certa, che il lavoro notturno ne abbia per sempre modificato il carattere, rendendolo concreto e solido, e di certo non una di quelle persone che si perdono in inutili giri di parole; d’estate entrava in laboratorio alle 10 di sera e lavorava ininterrottamente fino alle 13 dl giorno dopo. Aveva mani grandissime deformate da gesti ripetuti chissà quante volte, erano mani quasi insensibili al calore del forno e delle teglie roventi, ed erano impolverate di farina sempre, anche quando non lavoravano. Erano mani oneste.

E così, perché così andavano le cose, mi ritrovai un lunedì pomeriggio, con un grembiule bianco legato in vita, i capelli raccolti in una coda, dietro il bancone di un panificio, senza sapere che orari avrei fatto, che stipendio avrei preso, che mansioni avrei avuto. Niente, ma tanta era la fiducia che i miei riponevano in Giancarlo (si chiamava così) che non sentirono affatto l’esigenza di chiedere dettagli, che magari, era anche un po’ presuntuoso come atteggiamento, e poi mio fratello lavorava già da qualche stagione nel laboratorio, e questo come garanzia era più che sufficiente. Quanto a me, ero così timida e in soggezione che non avrei osato aprire bocca nemmeno per chiedere aiuto se il negozio stesse andando in fiamme; ai tempi diventato rossa come un pomodoro fino alle orecchie per un nonnulla, mi cominciavano a sudare le mani e la voce diventava tremula e appena percettibile. Avevo la pelle tenera tenera e non immaginavo minimamente i cambiamenti che avrei fato durante i mesi estivi grazie a Giancarlo.

Io non sapevo nemmeno distinguere un panino all’olio da un panino all’acqua, non avevo idea delle proporzioni per fare i vari pesi e la gente mi faceva paura e, cosa non trascurabile, facevo orari veramente tosti: mattina e pomeriggio tutti i santi giorni tranne la domenica pomeriggio, che era libera. Giancarlo mi stuzzicava in tutti i modi, mi prendeva in giro, mi faceva scherzi di ogni tipo e, quando parlavo, faceva finta di non sentire, in modo da obbligarmi ad alzare la voce, vincendo così a poco a poco, la mia timidezza. Mi costringeva ad andare più veloce, facendomi correre a destra e a manca con ogni scusa possibile  e quelle mattine che arrivavo in negozio particolarmente assonnata, per regalarmi un dolce risveglio, diciamo così, mi tirava le teglie vuote della focaccia fra i piedi, facendomi si svegliare di colpo, ma anche provocandomi dei sussulti indimenticabili. Ci voleva veramente bene a me e  a mio fratello e ci trattava in tutto e per tutto, alla stregua dei suoi figli. Mi ricordo molto nitidamente il giorno in cui mi pagò per il primo mese di lavoro: mi chiamò nel laboratorio e mi fece avvicinare al banco di lavoro e ci appoggiò un foglio che poi scoprì essere la mia prima busta paga, tirò fuori dalla tasca delle banconote e cominciò a contare…cavoli non si fermava mai, e quando la somma delle banconote messe sul bancone coincise con quella indicata sulla busta paga, invece che fermarsi, mi guardò negli occhi e continuò a contare “perché sei stata brava e te lo meriti” e mi fece una carezza sulla guancia con quelle mani gigantesche che ora sapevo essere capaci di dolcezze disarmanti. Guadagnai così il mio primo milione e mezzo di lire, una cifra enorme per l’epoca e anche una divisa nuova di zecca. Avevo superato l’esame, e ora cominciavo pure a rispondere a tono quando mi faceva delle battute, non arrossivo quasi più, e ridevo di gusto quando mi faceva qualche scherzo.

Arrivavo a fine agosto bianca come un cadavere e stanca morta, giusto il tempo per riposarmi un po’ e si tornava a scuola, ma con la mia stupenda cartella rossa della Naj-Oleari, con tutto coordinato dal diario, all’astuccio, ai quaderni…persino la carta con cui fasciavo i libri era perfettamente coordinata. E nessuno a casa osava dire niente, erano soldi miei, guadagnati con fatica e quindi potevo spenderli come meglio volevo. Che soddisfazione.

Così sono passate le estati degli anni delle mie superiori, da aiuto dell’aiuto dell’aiuto commessa, mi sono ritrovata a essere la commessa storica, conoscevo tutti i clienti e le loro abitudini, scherzavo con tutti e ho sempre avuto una parola per ognuno, Giancarlo ormai non faceva più paura, anzi, era il mio “padre lavorativo” e il negozio con il suo laboratorio lo sentivo a tutti gli effetti come la mia seconda casa. Ogni anno a stagione finita giuravo e spergiuravo che sarebbe stata l’ultima, che io di farmi un mazzo così non ne avevo più nessuna voglia, che non avevo ammazzato nessuno per meritarmi una fatica simile, ma poi, vai a sapere perché, l’estate successiva mi veniva spontaneo andare a chiedergli quando dovevo cominciare, lui mi pizzicava la guancia e mi diceva di andare quando “mi sembrava giusto andare” che tanto ormai sapevo come funzionava. Proprio come una famiglia.

E oggi Giancarlo se n’è andato, un altro pezzetto del mio passato si è trasformato in memoria. Gian vivrà nel mio ricordo come la persona che mi ha insegnato la fatica del lavoro, ma anche la soddisfazione che da esso ne deriva, mi ha insegnato lo spirito di sacrificio, ma anche la serenità che si prova dopo una giornata di lavoro, mi ha fatto vincere la mia timidezza quasi patologica e sono assolutamente certa del fatto che, se oggi sono così come sono, una bella fetta di merito va anche a lui, che ventisette anni fa, ha visto qualcosa di buono dietro ad una ragazzina a cui faceva paura praticamente tutto e che quindi si meritava un pizzico di fiducia.

Mi mancherà, e mi mancherà tanto. Lo voglio ricordare così: alle 13, quando il negozio chiudeva lui salutava tutti, si metteva il grembiule sporco sulla spalla, accendeva una sigaretta, metteva due panini dentro ad un sacchetto e si incamminava verso casa con il passo un po’ strascicato dalla stanchezza. Guardandolo così, con le spalle un po’ curve si intuiva tutta la fatica di un mestiere tanto nobile come quello del fornaio. Un lavoro fatto di orari strambi, di notti che diventano giorni e giorni che si spendono dormendo. Le stelle hanno vegliato sul suo lavoro per anni, ora è lui che da più vicino le osserverà, riposandosi.

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Magda: “in principio fu Merirose”

Dice il saggio: se vuoi capire chi sei, devi capire da dove provieni.
Quindi oggi si parla di genitori, una in particolare: la mia mamma.
Ce l’avete presente il film “il favoloso mondo di Amélie”? Ecco, mia mamma è Amélie da anziana.
Creatura dal candore e bontà d’animo quasi imbarazzanti, lei non molla mai: sembra debole, in realtà è una roccia.
La sua carta vincente? Il candore. Riesce a dire cose che non perdoneresti a nessuno, ma a lei sì, perché non te le dice per cattiveria, ma perché le escono così e basta. Ciliegie che cadono da un cestino troppo pieno.
Un esempio memorabile: io, le mie amiche Claudia e Nathalie (quest’ultima per mia madre una perfetta sconosciuta) tutte e tre in negozio insieme a fare una vetrina, tutte e tre single, io fresca di separazione, Claudia fresca di convivenza andata male, Nathalie decisamente sfortunata in amore. Mia mamma passa davanti al negozio, ci vede e entra. E partecipa alla nostra conversazione il cui argomento era “relazioni amorose: come trovare un partner sano di mente”, noi tre abbastanza deluse e disincantate, mia mamma, caricata a mille esordisce così:
” care ragazze, lo conoscete quel proverbio che dice così: una donna a 25 anni può scegliere, a 30 deve sbrigarsi e non avere troppe pretese, e a 35 si deve accontentare di chi se la prende”. Grazie mamma, anche io ti voglio bene. Ai tempi avevamo in due più di 35 anni, e Claudia 32-33 anni. Parafrasando mia madre ci ha dato una botta di casi disperati a me, sua figlia, a Claudia, grande amica di sua figlia, e a Nathalie, una perfetta sconosciuta. Roba da tirarle una mannaia nella schiena appena voltava le spalle, e invece siamo rimaste lì basite e incredule….lei senza fare una piega ha salutato e se ne è andata a prendere l’autobus (che per lei sarà sempre e per sempre: la corriera) per andarsene a casa. Noi con gli occhi quasi colmi di lacrime, a un passo dal pianto isterico.
Ne volete ancora uno? Vi accontento.
Settimana scorsa abbiamo ricoverato Merirose (mia mamma per i miei amici si chiama così ) ad Acqui Terme per farsi la protesi al ginocchio. Eravamo in macchina io, lei e Luca, si parlava del destino delle donne della mia famiglia, da parte di padre e, in effetti, le mie cugine fino al terzo grado di parentela, sono quasi tutte singles. Eccola che salta su lei “ovviamente, visto e considerato che te hai fatto per tutte”. Grazie mamma perché mi dipingi e consideri una specie di mantide mangia uomini. Avrei dovuto lanciarla giù dalla macchina in corsa….
La vita l’ha messa tante volte alla prova, ma io ormai ho capito il suo segreto: lei le tempeste non le affronta, ci passa attraverso, con le sue camicette a fiori, gli orecchini di perle e la borsa al braccio. E gli occhi buoni, tanto buoni.
Fosse un cane sarebbe un pacifico Labrador, se fosse un fiore sarebbe….sarebbe….mmhhh….esiste un fiore che non appassisce mai e poi mai? Bhè, se esiste lei sarebbe proprio quello.
La metti in una stanza piena di sconosciuti, stai pur certo che lei in cinque minuti conosce tutti e parla con tutti, avrà mostrato a tutti le foto dei figli, del marito e dei nipoti e ritrovato una vecchia compagna di scuola (le capita sempre, ma quante scuole ha frequentato, mi domando io).
Le piace il vino rosso e lo spritz con l’Aperol, e a me piace lei dopo aver bevuto uno dei due, quando è un po’ brilla diventa esilarante e con Luca che le fa da spalla lo spettacolo è assicurato; al nostro matrimonio tutti si ricordano di lei “la signora con la sciarpa turchese” già, perché con nonchalance l’ha sbattuta in faccia a tutti quelli che le sono stati intorno nel raggio di un paio di metri…
Ma a lei le si perdona tutto, perché lei è così.
Con la vedovanza ha scoperto il volontariato, ora è una volontaria AVO, quegli angeli in camice azzurro che fanno compagnia e assistono i malati in ospedale, io la prendo in giro dicendole che la sopportano perché non possono scappare essendo lei assegnata ad un reparto per lungo degenti per la maggior parte allettati, in realtà sono stra stra stra orgogliosa di lei, che quando non è di turno in ospedale tiene corsi di lavoro a maglia perché è bravissima e il suo è uno dei corsi più frequentati. E quando al circolo ACLI dove insegna, organizzano una cena, lei appoggia ferri e gomitoli e inforca mestoli e grembiuli e si mette a cucinare per cento persone. Poi magari noi figli, genero e nuora le chiediamo di farci due ravioli e ci risponde secca che non ne ha voglia, oppure ce li fa dopo mesi dalla nostra richiesta, ma non riusciamo a rimanerci male, ridiamo come stupidi e ci teniamo la voglia di ravioli, o meglio, ce li facciamo e lei si autoinvita a mangiarli.
Quando ero piccina non le assomigliavo per niente, ora noto che con il passare degli anni la somiglianza si fa sempre più evidente, sia fisicamente che nel modo di essere, anche se io, come ogni figlia femmina che si rispetti, nego ogni cosa: io sono figlia di mio padre e stop.
Ma poi quando me la vedo davanti e mi sembra così piccina, che piccina non è per niente (sono io che sono giunonica),mi viene voglia di abbracciarmela tutta e darle tutto quello che la vita non le ha dato (non preoccupatevi, la vita non è stata poi così avara con lei), e farle fare tutto quello che finora non ha fatto: mia mamma non ha mai preso un aereo, e io lo so che lo prenderà con me. Vorrebbe fare una crociera, la faremo insieme e lei starà malissimo perché soffre terribilmente il mal di mare, ma ce la farà e cenerà tutte le sere al tavolo del capitano perché lei, magari confondendolo per un marinaio qualsiasi, (vai a spiegare a mia mamma la differenza fra il capitano e un marinaio: io non ci provo nemmeno) farà subito la sua conoscenza e lui come tutti ne resterà incantato.
Luca ogni tanto me lo dice “hai fatto una faccia che sembravi tua madre”, “ti comporti come tua mamma”, “sei uguale a lei”, “guardo lei e vedo te fra trent’anni” e sapete che c’è? C’è che mentre fino a qualche anno fa avrei negato fino alla morte questa cosa, ora considerato tutte le persone cattive e aride che ci sono in giro, assomigliare alla persona più buona che io conosco e che questa persona sia anche mia mamma, alla fine così male non è, anzi…
Ne sono felice e fiera, molto fiera.

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Son tutte belle le mamme del mondo…ma anche no…

E poi ci sono le altre mamme, quelle che da quando vedono la fatidica linea rosa sul test, si dimenticano di essere donne, ragazze, femmine. Sono gestanti prima, puerpere subito dopo, mamme dopo poco: pesanti come pietre sempre. Ti viene naturale il dubbio: ma di cosa parlavamo prima che tu scoprissi di essere incinta? No perché non parliamo di nient’altro. Interessanti le tue nausee, da non credere il fatto che hai i piedi gonfi, incredibile le tettone che ti sono venute, ma ti prego, possiamo almeno provare a cambiare discorso per cinque minuti?
C’è un’amica che quando era incinta mi chiamava e mi chiedeva di non parlare della sua pancia, parlavamo di rossetti e scarpe con il tacco, di scemate da ragazze insomma, perché lei fra i corsi pre-parto e le conoscenze fatte in piscina ai corsi per gestanti, passava le giornate a non parlare di altro. Roba da alienate. Però io le foto della sua bella pancia le ho conservate tutte.
Senza cattiveria, ma è come parlare di tacchi con un uomo, o di bistecche con un vegetariano, quindi per tanto che io chiami a raccolta tutta l’empatia di cui sono capace, sulla distanza potrei annoiarmi, ma non per cattiveria, ma perché piuttosto mi rimane difficile farmi coinvolgere, perché son argomenti a me estranei.
Tranquilli, non sono una quarantenne incattivita dal fatto di non avere (ancora) figli, vi giuro che non sono pervasa da sentimenti di invidia o rancore, amo i bambini e sono categoria masterclass come zia, mi diverto con loro e mi piace passare del tempo in loro compagnia, ma con altrettanto piacere poi li riconsegno ai legittimi genitori per tornare a coltivare il mio edonistico “ménage a deux” con mio marito, il quale davanti al legittimo interrogativo “figli sì, figli no” ha così sentenziato: se restiamo in due ci compriamo un coupè e passiamo la vita a viaggiare”, non male come prospettiva, vi pare?
Per carità, io lo dico con molta allegria e affetto, ma credetemi, per una che non è addetta ai lavori parlare di cacche belle o brutte, di tette o non tette, di intolleranze al lattosio e compagnia cantando, ha lo stesso appeal che per un uomo può avere parlare di cere depilatorie. Ammazza l’allegria.
Che ne è rimasto di quelle ragazze piene di entusiasmo che eravate prima di diventare mamme? Dove avete nascosto la vostra allegria e spensieratezza?
Io lo dico sempre a mio marito: se mai diventerò una di quelle donne chiocce che piangono quando spediscono il figlio all’asilo, che rinunciano a tutto in nome del loro essere madri, che diventano maniache dell’igiene, che hanno una crisi di nervi se qualcuno tocca la loro creatura, che sembra non siano capaci di fare più niente di ciò che facevano prima, ecco, se divento tutto questo Luca è autorizzato a farsi un’amante.
Ci sono mamme che passano più tempo a passare e ripassare viso e manine del bimbo con le salviettine umidificate che a mangiarsele di baci quelle manine e quel faccino…mamme che invocano il silenzio totale per far dormire l’erede, mamme che si stracciano le vesti al minimo accenno di pianto, mamme che si trasformano in scudi umani se incrociano un cane innocuo, mamme che si votano ad una vita claustrale fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio, anno in cui lui andrà per la sua strada mandandovi a spigolare.
State calme, riavvolgete il nastro e tornate a ciò che eravate: i bimbi si abituano a tutto se li allenate poco alla volta.
Siete mamme non schiave vittime di un tiranno che si fa la pipì addosso, e poi una riflessione: o siete tendenti al melò voi che arrancate, o hanno i super poteri quelle che cavalcano l’onda della maternità con il sorriso sulle labbra e che magari approfittano dello stop al lavoro dovuto dalla maternità per scoprire nuovi hobby: un’amica ha aperto un blog molto carino, un’altra si è ri-data alla pittura, un’altra è diventata una bio-cuoca provetta. Insomma si può fare, basta organizzarsi.
Un pizzico di sano egoismo non farà di voi una madre indegna, anzi…
E ricordate ai papà che c’erano anche loro quando avete concepito il vostro erede (e si sono pure divertiti a farlo), quindi mettete a tacere i sensi di colpa e mollategli l’adorata creatura, farà bene a lui, a vostro figlio e a voi.
Lasciate che si arrangino e che trovino il loro equilibrio, e voi fatevi una bella battuta di shopping con un’amica come ai vecchi tempi, prendetevi un aperitivo insieme e parlate di sciocchezze, ma con calma e senza guardare il cellulare ogni cinque minuti, si arrangeranno loro e sopravviverete voi.
Garantito.

Son tutte belle le mamme del mondo…ma una di più!

Avevo in mente altro da scrivere oggi…ma poi un’altra idea si è fatta strada nella mia testa ed ecco qua.
Oggi si parla di mamme.
Mamme di oggi, amiche, conoscenti e anche semplici passanti, tutte ma proprio tutte hanno in loro personale approccio alla maternità, e fra queste ce n’è una in particolare che adoro. Ecco se un giorno sarò mamma, io voglio essere come lei.
Sorridente e serena, leggera ma non frivola , ha accolto prima la sua gravidanza e poi il suo essere mamma con una naturalezza meravigliosa. Come dovrebbe essere. Nulla la fermava quando era incinta e niente la ferma ora che sua figlia ha quasi un anno. Il giorno prima del parto era al mare che sguazzava come una balenottera felice e tre giorni dopo il parto era a prendersi un aperitivo con carrozzina al seguito, marito adorante e amici entusiasti per la nuova arrivata.
Non ho mai mai mai sentito questa ragazza lamentarsi per una notte insonne, o per una colica della piccola, non ho mai percepito in lei la fatica che l’essere mamma sicuramente comporta, non si è mai isolata nel microcosmo “mamma e figlio”. Così tanta serenità non poteva far altro che ricadere generosamente sulla figlia che è infatti la creaturina più adorabile che io abbia mai visto. Un folletto sorridente e giocoso, che sin da piccolissima ha imparato a interagire con gli adulti, e a far parte del gruppo, senza timore. Questa bimba non piange mai, non fa capricci, è libera di sporcare, sporcarsi, sperimentare, toccare, accarezzare animali, gattonare su qualsiasi superficie, mangiare da sola con le mani anche se pochissimi bocconi raggiungono la bocca, i più finiscono in terra, sulla fronte e sul naso; e con fiducia accetta la mano che le viene tesa per provare a fare i primi passi. Questa bimba non ha paura perché la mamma le ha insegnato a non averne, e perché sa che la mamma c’è. Una bimba sicuramente non viziata ma meravigliosamente felice, che vanta già un curriculum impressionante: ha assistito a conferenze sull’arte, ha già visitato mostre e palazzi antichi, ha già dormito fuori casa da sola, ha assistito a concerti (grandiosa l’idea delle cuffie insonorizzanti), esce la sera e non si fa menate tipo l’esigenza del silenzio totale per dormire o che bisogna correre a casa per mangiare.
E la mamma? Secondo me la sua marcia in più è vivere questa maternità come completamento della sua vita e non come esperienza totalizzante, esce e vede gli amici esattamente come prima, dipinge e crea piccoli capolavori proprio come prima, si organizza con la nonna “posteggia” la figlia e va a farsi una corsetta sul lungofiume, e se la nonna non può, nessun problema, mette la piccola nel passeggino e sul lungofiume ci si va insieme. Con il papà sembrano ancora due piccioncini e sono bravissimi a ritagliarsi i loro spazi senza sensi di colpa, e soprattutto continuano a chiamarsi per nome non mamma e papà anche fra di loro…oltre a essere famiglia, continuano a essere coppia. Bravissimi!
Non sono maniacali nei confronti di questa bimba, quando usciamo tutti insieme questa piccina passa dalle braccia di uno a quelle dell’altro e loro, saggiamente, ne approfittano per tirare il fiato e quando magari si stufa un pochino, le basta sentire la voce o incrociare lo sguardo della mamma e torna il sereno e poi fa dei sorrisi che ti spalancano il cuore, un toccasana per l’anima.
Gibran ha scritto questo passo sul rapporto genitori/figli, ve lo riporto pari pari perché lo trovo bellissimo:

VOI SIETE GLI ARCHI DAI QUALI I VOSTRI FIGLI ,
VIVENTI FRECCE,
SONO SCOCCATI INNANZI.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito,
e vi tende con la sua potenza affinchè le sue frecce possano
andare veloci e lontano.
Sia gioioso il vostro tendervi nella mano dell’Arciere;
poiché se ama il dardo sfrecciante,
così ama l’arco che saldo rimane.

Questa bimba andrà sicuramente lontano, perché la mamma e il papà con gioia l’hanno consegnata al mondo, e le stanno insegnando che per conoscerlo a fondo questo mondo, un po’ bisogna sporcarsi, ma che è giusto così. E prima lo imparerà, prima imparerà a non averne paura.

Cose per cui vale la pena vivere (secondo me)

Anni addietro mi sono trovata ad affrontare un periodo piuttosto duro, roba da maledire il sole quando sorgeva e sperare che la notte non finisse mai. Ancora adesso quando ci ripenso sento quel nodo nello stomaco che rendeva faticoso respirare e la sensazione di essere in trappola, caduta in un pozzo. Fu allora che il mio di allora cognato, che di professione fa lo psicologo, un bel giorno mi ha preso di petto e mi ha detto “così non puoi più andare avanti” e mi ha suggerito di intraprendere un percorso di psicoanalisi.
Non avendo niente da perdere, ho seguito il suo consiglio e devo dire che è stata una delle decisioni migliori che ho preso in tutta la mia vita.
Durante una delle sedute, me ne sono uscita con questa frase “perché vede dottoressa, io non ho nessuna ragione per cui vivere”, lei allora decise di darmi un compito, ossia scrivere un elenco di ciò che avevo e ciò che invece mi mancava. Ai tempi ricordo che feci un elenchino striminzito e intriso di tristezza cosmica, roba che Leopardi al mio confronto era il re della festa.
Voglio provare a farlo ora quell’elenco, a distanza di anni, ora che l’analisi è conclusa, ora che godo dei risultati di quelle sedute così faticose, ora che, dopo essermi smontata pezzo per pezzo, mi sono ricostruita e sono una persona nuova e migliore.
Proviamo. Allora…

“Cose per cui vale la pena vivere”
– il sorriso di mia mamma, che da quando è rimasta vedova ha messo il turbo ed è un esempio per tutti, nemmeno la malattia è riuscita a piegarla. Una donna incredibile.
– mio marito, che al mattino mi guarda con lo sguardo esageratamente trasognato e mi dice che mi adora, e io lo so che mi prende in giro perché al mattino sono peggio del Grinch.
– Tabata, il cane più buono della Terra, la cui dolcezza mi sorprende sempre e mi insegna che alle volte basta una carezza a raddrizzare una giornata storta.
– quella bella sensazione che provo la sera, quando chiudo porte e finestre e so che tutte le persone a me care sono al sicuro e stanno bene.
– fare finta di dormire così che Luca e Tabata vengano a svegliarmi con baci, solletico, zampate, leccate e si comincia la giornata ridendo.
– il panorama mozzafiato che mi fa compagnia mentre vado al lavoro.
– i miei nipoti e mio fratello perché siamo parti dello stesso albero, le mie radici sono anche le loro, io sono loro, loro sono me.
– le mie amiche, che anche se ci vediamo poco, ogni volta è come avere di nuovo vent’anni
– il mare, perché mi fa sentire libera.
– tutto il buono e il bello che scopro ogni giorno in persone sostanzialmente sconosciute. Ascoltarle, parlare con loro anche se spesso parliamo due lingue diverse, ma il suono di una risata è universalmente lo stesso.
– un temporale notturno, che diventa la scusa perfetta per dormire abbracciati.
– un tramonto mozzafiato che mi fa capire che per tanto che l’uomo possa darsi da fare, davanti a Madre Natura resta comunque poca cosa.
– tornare a casa dal lavoro e trovare Luca tutto intento a preparare il mio piatto preferito: spaghetti con le vongole.
– stappare una bottiglia di buon vino e poi fare discorsi senza senso.
– avere il tempo per poter realizzare buona parte dei miei molti sogni.
– nel caso in cui qualcuno Lassù decidesse di buttare uno sguardo verso il basso per vedere che combino, sapere che è orgoglioso di me.
– vivere perché sono fortunata, ho occhi per vedere, orecchie per sentire, bocca per parlare, mani per fare e gambe per andare.
Non mi serve altro.
(A parte un paio di scarpe da favola)
Un sorriso, Magda.