“Io odio correre” diario di una maratoneta per amore

Il 2016, che anno straordinario è stato! Straordinario al punto che ho pensato di farlo diventare un libro… Già ma da dove si comincia a scrivere un libro? i filosofi direbbero che si comincia a scrivere un libro,  nel momento stesso in cui percepisci la necessità di farlo. I sognatori, diranno invece, che un libro si comincia a scrivere nel momento esatto in cui si accende la scintilla, e compare nella testa quella frase magica da cui si snocciolerà tutto il discorso, tutto d’un fiato, come se fosse già bello che scritto dentro all’anima, ma solo non si trovava la via per portarlo alla luce.

Io ci ho impiegato quasi quattro anni: i primi tre pensare se ero all’altezza e se potevo cimentarmi in un’impresa così ardua,  nel quarto ho deciso di passare all’azione, e come una sartina di altri tempi, ho cominciato a disegnare il bozzetto, a buttare giù idee e spunti un po’ a casaccio, sulle pagine di un Block notes giallo: una parola, un’immagine, una riflessione, tutto buttato lì, in attesa di nuovi ordini.

Poi finalmente un giorno è arrivata l’idea che stavo aspettando: una maratona è lunga 42 km e 195 metri, quindi il mio libro sarà composto da 42 capitoli e 195 parole. Ogni capitolo un suo titolo ben definito, come se si trattassero delle tante tappe di cui si compone un cammino. Come a voler dire al lettore: “vieni che ti accompagno io, che questa strada la conosco bene”, e da quel momento è stata tutta discesa.

Amo alla follia “Io odio correre” perchè dentro ci sono io, forse come non mi sono mai mostrata, nuda e cruda fino all’osso. Ci sono tutti i miei stati d’animo, le gioe, le paturnie, i dispiaceri e le soddisfazioni. Niente è stato inventato: fatti, persone e luoghi esistono realmente, e se in qualche pagina si piange, in molte altre, per fortuna, si ride a crepapelle. E poi è il mio primo libro: come faccio a non pensare che sia il più bel libro scritto fino ad ora in tutta la storia della letteratura? Sarebbe come se una mamma si mettesse a urlare in piazza che suo figlio è brutto e antipatico: impossibile!

Durante un’intervista mi hanno chiesto a che genere appartiene “Io odio correre”… domanda difficile. La risposta più corretta, credo sia che è proprio come la persona che l’ha scritto: io, che non eccello in niente ma mi barcameno in tutto. E quindi è diario biografico, ma anche una storia d’amore, un libro ironico e buffo, ma a tratti commovente e riflessivo, e pure un libro motivazionale, perché se ci sono riuscita io a correre la maratona di New York, credo che ci possano riuscire veramente tutti, solo che io mostro la via meno atletica ma più umana per farlo.

Ecco così raccontata la storia di “Io odio correre”, che è e resterà per me e per sempre, il mio sogno tirato fuori dal cassetto e realizzato, perchè come diceva Walt Disney: se lo puoi immaginare, lo puoi fare.

Se vi ho incuriosito… lo trovate qui

Magda e Furio al corso di cucina thai

Cosa ci fa una che non mangia piccante ad un corso di cucina thai?
Me lo sono chiesta anche io ieri sera, quando MariaSole la cuoca insegnante del corso, ha esordito con “la cucina thai è la cucina più piccante del mondo”.
Molto bene, siamo a cavallo….
Ormai ho imparato, se dichiari subito i tuoi punti deboli sei salvo, quindi ho esordito con “non è che non mangio piccante, diciamo piuttosto che il mio approccio è uguale a quello di un bambino di otto anni”.
Ed è così che senza volerlo ho sabotato il corso di cucina thailandese, cosa simpaticamente (ma simpatica sul serio) sottolineata da MariaSole, che durante tutte e quattro le preparazioni a un certo punto esordiva sempre con un “e adesso ci starebbe bene un po’ di peperoncino, ma noi non possiamo” e inevitabilmente lo sguardo di tutti si dirigeva verso di me….
Ma non mi sono arresa e punta nell’orgoglio ho sfidato le mie papille gustative, già perché durante la preparazione del riso all’ananas e cocco, ogni volta che la cuoca aggiungeva piccolissime particelle piccanti di pasta al curry mi chiedeva di assaggiare per vedere se era tollerabile per le mie neofite papille, e io stoica “no non picca” e lei giù ad aggiungere fino ad arrivare al punto che a momenti mi prende fuoco la gola…ho dovuto buttar giù una bella sorsata di birra per venirne fuori, io che come tutti sanno sono astemia, (perché ridete?) però il riso era buono buono.
Finita la birra ci siamo visti costretti ad aprire una bottiglia di tipico pigato thailandese (scherzo, era ligurissimo) e da quel momento in poi l’atmosfera si è rilassata parecchio, e io mangiavo il piccante con una disinvoltura impressionante.
Da provare assolutamente la zuppa Tom yan Kung, certo, se riuscite a reperire tutti gli ingredienti per farla, e pare che l’unica chance sia andare a Genova in Via Gramsci, quindi, nel caso, organizzatevi per tempo infatti per prepararla a puntino serve una misteriosa salsa di pesce, un ancor più misteriosa pasta piccantina in vaso che sembra un paté di pomodori ma se lo mangi muori per autocombustione, lemon grass che presto la troverete anche a Caperana, date solo il tempo necessario a Furio per dare il via alla coltivazione, funghi, passata di pomodoro, gamberi e lime. Inforcate le chopsticks e dateci dentro. Un’unica raccomandazione: provoca dipendenza da tanto è buona.
E poi arriva il momento dello stupore, del sapore che non ti aspetti: preparate un battuto di aglio e zeste di lime mettetelo in una ciotola con dei pezzetti di papaya e ananas irrorati con un po’ di succo di lime. Mischiate il tutto e assaggiate: non crederete a quello che vi diranno le vostre papille. Poi potete tornare alla rassicurante pasta al pomodoro, ma fidatevi, dovete provare. A completamento del piatto piccoli bocconcini di petto di pollo fatti marinare con del succo di lime e poi saltati in padella a fiamma vivacissima, questa è la versione base, se siete temerari e vi piace sudare buttateci manciate e manciate di peperoncino piccante, e preimpostate il 115 (vigili del fuoco) sul cellulare. Rapido buono e salutare.
Altro giro altra corsa: Noodles pad thai, le meduse nel piatto (dopo Hong Kong il mio rapporto con i noodles è irrimediabilmente compromesso). I noodles altro non sono che una specie di tagliatella trasparente un po’ cingosa che si cuoce come la nostra pasta fresca, anche se il paragone è quasi blasfemo, poi una volta scolati li metti in una wok in cui avrai precedentemente preparato un condimento, noi ieri sera avevamo fagiolini, carote e germogli di soia, noccioline tritate, salsa di pesce, lime, aglio e salsa di soia, li fate saltare ben bene e poi ve li pappate e buon appetito.
Io che in sono bravissima in cucina, ho preparato il nostro dolce, attenti al procedimento perché non è facile. Allora rubate agli altri la papaya che hanno già sbucciato e tagliato, e mettetela in una ciotola. Poi, massacrate a coltellate un innocente mango dopo averlo ridotto di un terzo del suo volume nel tentativo di sbucciarlo, prendete i brandelli di mango così ottenuti e provate a dargli una forma simile a dei cubetti che metterete insieme a quelli di papaya, prendete un lime e spremetecelo dentro, mischiate il tutto. Lo so è un po’ difficile, ma ci potete riuscire anche voi.
Importante: per la buona riuscita dei piatti della cucina thai servono alcuni accorgimenti essenziali, ve li riporto pari pari:
– essere sorridenti
– mettersi un fiore fra i capelli
– avere a disposizione casse e casse di lime altrimenti non andate da nessuna parte
– cucinare insieme a gente allegra
– avere a disposizione una piccola alcova perché pare che la cucina thai invogli a ben altri piaceri oltre a quelli della tavola.
Detto questo non resta che aggiungere:
kŏr hâi jà-rern aa-hăan! Che in lingua thai si scrive:ทานให้อร่อยนะ
Non offendetevi, vi ho solo augurato buon appetito.

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Magda e un sogno nel cassetto

Oggi è una giornata importante, almeno per me.
Dopo le reiterate insistenze di Furio, dopo che lui mi ha regalato il supporto tecnologico per farlo, dopo aver vinto pigrizia e timore, dopo aver scavalcato tutti questi “dopo” e alcuni insidiosi “ma” “se” “poi” sparpagliati da me stessa qua e là, ho finalmente trovato il coraggio per farlo.
Cosa? Direte voi…
Oggi apro il cassetto dei sogni e ne tiro fuori uno, il più cullato, accarezzato e ambizioso di tutti: da oggi comincio a scrivere il mio libro.
Scrivere un libro è un po’ come mettere al mondo un figlio: lo concepisci, lo tieni dentro di te e lo fai crescere, lo nutri e lo alimenti con pensieri, frasi e immagini che ti si formano in testa, ma non sai quando vedrà la luce.
Stamattina andando al lavoro in scooter, tutta presa a guidare canticchiando, la mente correva libera, quando improvvisamente nella testa si è materializzata la frase di inizio, il bandolo della matassa.
Già, perché puoi anche avere tutte le idee in mente, ma se non trovi l’incipit giusto, quelle se ne restano ferme lì: un liquido troppo denso che deve passare attraverso ad un imbuto troppo piccolo e più spingi e forzi le cose e meno ne vieni a capo; te ne stai fermo con la tua barchetta in mezzo ad un mare di parole, ma bisogna saper aspettare l’onda buona per cominciare a navigare, solo allora si può partire e prendere il largo, e stamattina è arrivata.
Non ho idea di quanto tempo ci vorrà, e forse lo leggeranno solo i parenti e gli amici più stretti, con ogni probabilità non passerà alla storia della letteratura e non vincerà nessun premio Strega o Bancarella, ma cavolo, è il mio sogno nel cassetto, l’ho tirato fuori e gli ho dato vita. Il solo pensiero è di per se inebriante.
Non ho idea di come si intitolerà, come per un figlio che prima di dargli un nome lo vuoi guardare negli occhi, io prima devo accarezzarne le pagine, e poi si vedrà, ma già da oggi so con certezza a chi dedicarlo. Sarà una cosa del genere: “a mio papà Pino e a mio marito Luca: se sono come sono la colpa (o il merito) è in gran parte vostra”
Ora mi scuserete, ma devo proprio andare, ho un sacco pieno di parole sulle spalle e delle pagine bianche da riempire.

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“Magda, mi vuoi sposare?”

Dimonds are a girls best friends…
Maggio il mese delle rose, il mese della festa della mamma e il mese dei matrimoni.
Ma facciamo qualche passo indietro, già perché prima di arrivare al fatidico sì, bisogna compiere un altro step assolutamente necessario. Infatti conditio sine qua non di un matrimonio è che qualcuno vi abbia chiesto di sposarlo. Altrimenti ciccia…
Come ve lo hanno chiesto? O in alternativa, come vorreste che ve lo chiedessero? Oppure basta che ve lo chiedano non vi importa nulla del come?
Personalmente sono una classicona e credo che niente possa competere con la sempreverde scatolina di velluto che al momento giusto il vostro fidanzato aprirà davanti ai vostri occhi e con fare un poco impacciato vi chiederà “mi vuoi sposare?” Aaaaahhhah (è un sospiro trasognato) che bel momento!
E non provate a fare le dure e pure e dire “oh no, a me non me ne frega niente” “uuuhhh, i diamanti che schifo, sai con quei soldi quanti viaggi ci facciamo?” ” a guarda, l’amore non si misura in carati”. Se fate vostra anche solo una di queste affermazioni (che comunque hanno tutte un innegabile fondo di verità) la spiegazione è semplice: o non ve lo hanno ancora regalato, o ve l’hanno regalato ma non era in nessun modo degno di nota.
È vero, l’amore non si misura in carati, ed è altrettanto vero che può rappresentare un certo investimento economico per il nostro fidanzato, ma se lui ha deciso di regalarcelo, perché noi dobbiamo auto-boicottarci?
Vi sia di monito l’esperienza di mia mamma.
Correva l’anno 1978, mio papà aveva deciso di regalare a mia mamma una riviera di brillanti senza nessuna ragione in particolare (mio papà era un romantico estemporaneo), beh aprite bene le orecchie: mia mamma ha detto “ma no, grazie, Angelo prende la Comunione, preferirei spendere quei soldi per sistemare casa” e ha barattato la riviera di brillanti con della tappezzeria. Epilogo: casa tappezzata in ogni dove (che francamente, se ne faceva pure a meno) della riviera si sono perse le tracce, da quel giorno credo che il regalo più romantico che mio padre abbia fatto a mia mamma sia una lavatrice e mia mamma si mangia le mani ancora adesso.
Mi sembra che il concetto sia chiaro.
Proseguiamo.
Ci sono poi altre ragazze che sostengono che regalare un brillante sia ormai terribilmente fuori moda, posto che certe cose non passano mai di moda, queste ragazze sono le stesse che poi sono diventate improvvisamente mancine proprio da quando l’obsoleto anello di fidanzamento gli è stato in seguito regalato: salutano con la sinistra, si sistemano i capelli con la sinistra, gesticolano solo con la sinistra, tutto con la sinistra. Per favore, se vi capita di incrociarne una, liberatela dall’incantesimo, fatele le congratulazioni e i complimenti per la bellezza dell’anello e come per magia ricomincerà a usare di nuovo anche la mano destra.
Quanto a quelle “a no guarda, a me non me ne frega niente”, io le catalogo nel fascicolo “la volpe e l’uva” perché puoi essere anche la più selvatica del Creato ma il momento in cui il tuo fidanzato ti prende la mano e ti mette l’anello al dito e ti chiede di sposarlo, è così intimo, romantico e delicato che il cuore fa tre o quattro capriole, batte due colpi a vuoto e ci mette un pochino di tempo a tornare ai valori normali. È un momento indimenticabile.
Io ho pianto come una fontana, avevo la febbre ed ero in pigiama, ma non importa, è stato tutto pefetto…a parte il fatto che Furio per rendere il tutto più gustoso ha voluto che aprissi da sola la cassaforte dove lo teneva nascosto, e io quella maledetta non riesco ad aprirla nemmeno quando scoppio di salute e sono tranquillissima…figuratevi quanto ci ho messo quel giorno, con la febbre a 38 e con le idee poco chiare circa quello che stava accadendo. Tre giri in senso orario, numero, due giri al contrario, numero, un giro orario e taaaac: no niente, riprova. Allora, dunque, tre giri in senso antiorario, no orario, ma forse prima due, centra il numero giusto altrimenti non prende la combinazione. Riprova. Ririprova. Riririprova. E lui che rideva garrulo. Ma a costo di smurarla con un flessibile o farla brillare con una piccola carica di esplosivo, ce l’ho fatta. Abbracci, baci e telefonata alla mamma.
E questa ve la devo raccontare bene perché merita.
“Pronto mamma? lo sai che Luca mi ha regalato l’anello di fidanzamento e mi ha chiesto di sposarlo?” Lei serafica “bene, e tu cosa gli hai risposto?” Io incredula “beh, che domande, gli ho risposto di sì” Lei allarmata “Manuela…di nuovo? Dobbiamo di nuovo organizzare tutto l’ambaradan?” E tanti ringraziamenti per l’incoraggiamento…
Abbiamo stappato una bottiglia di champagne che conservavamo apposta per un’occasione speciale e ci siamo fatti la pasta al pomodoro cenando a lume di candela, lui in tuta e io in pigiama malata. Unforgettable.
E ancora adesso ogni tanto mi incanto a guardarlo, ma non perché brilla ed è bello, ma perché rivivo quella giornata, quando di fatto non è cambiato niente, ma nulla è stato più come prima.

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Il Vittoriale: Magda, Furio e il Vate

E finalmente: il Vittoriale
Felice, entusiasta e grata a Furio per avermici portata.
Chi mi conosce dai tempi della scuola lo sa, adoro il Decadentismo come periodo storico-letterario, mi piace il Liberty e l’Art nouveau come stile architettonico, ho passato la mia adolescenza a leggere e rileggere i poeti maledetti Buadelaire Rimbaud e Mallarmé e alla maturità ho ubriacato la commissione parlando per mezz’ora buona di D’Annunzio.
La pioggia nel pineto rappresenta per me la Poesia con la P maiuscola, e quando ero più giovane la sapevo tutta a memoria.
La visita della Prioria, la casa di D’Annunzio dura circa mezz’ora, si fa a gruppi di sette persone e entrando nell’ingresso principale si ha la sensazione di varcare uno stargate: tutto è esattamente come se lui fosse stato lì cinque minuti prima del vostro arrivo.
Non trovate geniale il fatto che ci fossero due ingressi? Uno per gli ospiti graditi e uno per quelli non graditi? E che negli anni in cui il Fascismo era al suo apice, lui potesse permettersi di far fare due ore di anticamera a Mussolini, al quale dedicò uno specchio creato per l’occasione, recante questa scritta “Al visitatore: teco porti lo specchio di Narciso? Questo è piombato vetro, o mascheraio. Aggiusta le tue maschere al tuo viso ma pensa che sei vetro contro acciaio” a farla breve, con sapienti giri di parole, ha dato dello sfigato a Mussolini. Adorabile.
Si attribuiva arbitrariamente parentele con Michelangelo e San Francesco e altrettanto arbitrariamente decise che i peccati capitali erano cinque e non sette, in quanto avarizia e lussuria non erano poi così gravi. Un genio.
Talmente ebbro di sè, da far costruire la soglia che conduceva al suo studio privato, l’Officina, in modo tale che il visitatore per entrare dovesse per forza inchinarsi. Amante dei levrieri e delle belle donne, ne ebbe tanti sia degli uno che delle altre, la più famosa delle sue amanti fu Eleonora Duse, cui la Pioggia nel pineto è dedicata, seguita poi da Luisa Baccara.
Girando per la casa non si può non rimanere affascinati dall’atmosfera che vi si respira, ogni singola stanza comunica la personalità di colui che la abitò, le sue manie, le sue fissazioni. Opere d’arte sparse ovunque che lui stesso di dilettava a decorare e modificare, collezioni di ogni tipo, ovunque è un tripudio di stoffe, tappeti, damaschi, cuscini e argenti.
Nella sala da pranzo uno degli oggetti più particolari: una tartaruga il cui carapace è quello appartenuto a una tartaruga regalata al Vate morta per indigestione di tuberose. È stata messa da lui in persona a capotavola come invito alla morigeratezza per gli invitati, e buon appetito. Da notare che la tavola era sempre apparecchiata per undici commensali, come i dodici Apostoli dell’ultima cena, meno uno: Giuda, che D’Annunzio non avrebbe gradito alla sua tavola. Umile e di basso profilo, come si evince visitando la sua stanza da bagno personale, il bagno blu, caratterizzato da ben novecento oggetti e oggettini scelti personalmente da lui in persona: bellissimo.
La cucina pur essendo una delle più moderne dell’epoca ci appare come relativamente spoglia, la spiegazione è semplice: è un locale di servizio, quindi non era un locale che lui frequentava, quindi non si meritava particolari attenzioni estetiche.
Uscendo (a malincuore) dalla Prioria ci si addentra per i giardini del Vittoriale, all’interno dei quali si trova un edificio contenente un Mas 96, acronimo di: Motoscafo Armato Silurante, dal D’Annunzio trasformato nel celeberrimo Memento Audere Semper per rendere omaggio allo spirito bellico dello strumento militare stesso, di cui partecipò al battesimo del fuoco. Un altro motto dannunziano passato alla storia è Habere non haberi (possedere, non essere posseduto), anni fa dovevano diventare due miei tatuaggi, poi visto lo spirito fascistoide di queste frasi, ho desistito…
Un altro omaggio fatto a D’Annunzio dalla Regia Marina per onorare la memoria delle sue imprese è la prua della nave Puglia, perfettamente incastonata all’interno del giardino, messa come se stesse per salpare verso l’Adriatico. A chiudere la parte alta dei giardini troviamo il Mausoleo dove trova sepoltura il Vate e tutti i suoi più stretti collaboratori e amici, una struttura circolare estremamente definita, dove gli unici elementi che spezzano il rigore delle forme sono le statue di quattro levrieri messi in altrettante pose diverse e dinamiche.
Si scende poi nella parte più privata dei giardini, con il laghetto delle danze (una specie di piscina ante litteram) con giochi d’acqua e cascatelle, il cimitero dei cani, un’ala dedicata alla sepoltura dei suoi amati levrieri, l’arengo, il bosco sacro dove D’Annunzio celebrava con i compagni più fedeli i riti commemorativi o iniziatici dell’esperienza di guerra. Sparsi ovunque massi prelevati dai siti dove sono state combattute le battaglie più importanti, fiori e alberi, soprattuto di melograno, tanto caro a D’Annunzio in quanto simbolo di prosperità e ricchezza.
Tutto, ma proprio tutto dentro e fuori trasmette una vera e propria ossessione per il bello, l’affannosa ricerca del dettaglio che lasci tutti a bocca aperta, che susciti il massimo dello stupore, che sia specchio per l’estrema vanità del Poeta, il cui motto più famoso “bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte” in questo luogo magnifico sembra rimbalzare in ogni angolo per elevarsi al massimo.
Un posto dove andare, da vedere assolutamente per sognare a occhi aperti, per poter vivere per poche ore il fermento e la passione che si respiravano in Italia all’inizio del Novecento.
Citando ancora una volta D’Annunzio ” La passione in tutto. Desidero le più lievi cose perdutamente, come le più grandi. Non ho mai tregua.”

Magda e Furio e una Comunione al lago

Dove eravamo rimasti?
Ah, sì ora ricordo.
Dunque, dopo aver passato tre quasi quattro magnifiche ore a vagare nel favoloso mondo del Vittoriale ci è venuta fame e, altro fatto non del tutto trascurabile, c’era un sole che spaccava le pietre e Furio stava cominciando a dare segni di insofferenza… E anche io.
Ci infiliamo nelle viuzze del borgo antistante al Vittoriale alla ricerca di un ristorante non troppo turistico, dove mangiare un boccone.
Evitiamo i primi due, troppi turisti seduti…procediamo.
Arrivati ad uno slargo c’è un ristorante che fa anche albergo con un menù interessante e un nome che è tutto un programma: “Trattoria degli angeli”, decidiamo di entrare. Che il nome forse sia ispirato dalla gentilezza delle persone che ci lavorano? mi dimentico sempre del fatto che non siamo in Liguria e quindi essere gentili è normale…
Ma non è di questo che vi voglio parlare. Ho cose ben più interessanti da dirvi, infatti nel ristorante c’era il pranzo per festeggiare una Comunione e gli invitati sembravano arrivare direttamente dal festival dei Freak.
Valutiamo le attenuanti generiche: la moda e lo stile sono, se vogliamo, questioni di gusto personale, ognuno ha il proprio senso estetico, e quello che per me, è bello agli occhi di qualcun altro può essere orrendo (e viceversa).
Però….
Però non puoi andare ad una Comunione in t-shirt nera aderente, jeans e scarpe da ginnastica soprattutto se tua moglie è agghindata pronta per un invito a Ascot con abito super griffato e sandalo gioiello.
Metti che la moda lacustre è diversa da quella della Riviera Ligure ma l’insieme di un altro invitato: pantalone blu chiaro con cavallo sotto-chiappa, blazer corto corto blu scuro, camicia bianca e sneakers nere, secondo me era un po’ sconclusionato e poco importa se hai forse vent’anni, la crestina fatta con il gel è truzza.
A confondere ulteriormente il quadro c’erano signore che sembravano pronte per andare a fare la spesa accompagnate però a signori in completo grigio, ragazze scosciate e scollate sedute di fianco ad una signora musulmana con tanto di velo (bello a dirla tutta) e tacchi a spillissimo che sembravano dover cedere da un momento all’altro schiacciati dal peso di una figura tutt’altro che esile.
E ora alcune cose ho notato, decisamente da evitare:
Anche se sono due morse infernali mai mai MAI sfilarsi le scarpe una volta sedute a tavola. Pensiamo di averla fatta franca, nessuno noterà mai i nostri piedini. Errore: chi è seduto alle nostre spalle lo noterà. Ed è brutto da vedersi, molto brutto.
Se non siamo dotate di caviglie esili esili, evitiamo di ostinarci a comprare sandali con lacci alla caviglia, il risultato è sconfortante, infatti le nostre caviglie sembreranno ancora più grosse costrette dentro a cinturini troppo stretti (ricordate che le caviglie con il passare delle ore tendono a gonfiarsi un pochino). Scongiurerete anche il rischio di una feblite, vi pare poco?
Mai indossare un vestito senza reggiseno, soprattutto se Madre Natura con voi è stata particolarmente generosa. Se poi il vestito in questione è rosso e troppo corto, i sandali troppo alti e voi non sapete portarli e quindi camminate tutte sbilanciate in avanti, non è che sono io a essere troppo acida, siete voi che ve la siete cercata.
Quando comprate dei sandali, mentre li provate, sinceratevi che la forma sia adeguata al vostro piede. Mi spiego meglio: i mignolini devono stare dentro la scarpa e non cercare vie di fuga laterali, che se poi per disgrazia la trovano non c’è niente di peggio che vedere due bei sandali con il mignolino che sbuca fuori come la testina di un gatto che si sporge dalle ringhiere di un balcone.
Sempre sulle scarpe: già le scarpe con il plateau sono brutte, se poi le scegliete in tinta fluo e plateau alto una spanna e le abbinate ad un vestito sempre troppo corto, non rimaneteci male se anche vostra mamma fa finta di non conoscervi se vi incrocia. C’est la vie.
E per concludere, l’accessorio da cerimonia per eccellenza: la stola.
La colpa è nostra, tutta nostra di noi commesse (sì, mi ci metto dentro anche io perché ho lavorato per un marchio femminile molto in voga quando si tratta di cerimonie)che con subdola mano sapiente e allenata vi cingiamo le spalle con stole che poi annodiamo con fantasia creando volumi e giochi di intreccio oggettivamente belli, peccato che siano praticamente non realizzabili da ogni altro comune mortale e poi al primo accenno di movimento crolla tutto. Il risultato? A metà festa tutte le invitate stola-munite sembra che abbiano uno strofinaccio da cucina legato intorno alle spalle, in alternativa, uno straccio per la polvere ammucchiato sulla sedia e le più disinvolte si renderanno detestabili sbattendola in faccia a tutti gli invitati nel vano tentativo di rimetterla al suo posto. Date retta a me: fate un bel mucchio delle vostre stole e poi dategli fuoco, non avete perso niente.
Per chi se lo stesse domandando: abbiamo mangiato divinamente, coccolati da personale gentile e sorridente, spendendo una cifra più che corretta.
Voto al ristorante 10 e lode.
Voto agli invitati: mmmmmhhhhh, lasciamo stare ( ma grazie perché ci avete fatto divertire un sacco)

Fine seconda parte.

Magda e Furio e la gita fuori porta

Una domenica indimenticabile….
Ora si tratta di decidere da dove cominciare a raccontarla, e come.
Testa o croce.
Testa: resoconto semiserio di una domenica italiana
Croce: il Vittoriale minuto per minuto con riferimenti alla vita e alle opere del D’Annunzio
Va be’ dai, prima vi faccio ridere…

Sveglia alle ore 6:00 e mentre in altre circostanze avrei brontolato e sarei stata simpatica e socievole come un lupo mannaro, salto giù dal letto che neanche a Natale quando c’erano da aprire tutti i regali ero così pimpante. Ci prepariamo e via, si parte alla volta di Gardone Riviera: andiamo a visitare il Vittoriale. Siamo allegri e ridanciani, promette di essere una domenica perfetta.
C’è poco traffico e il viaggio è piacevole e rilassante, Furio guida la sua crucca bianca in totale sicurezza, quando a un certo punto lo spiazzo con un’uscita delle mie “ma su che lago si trova con precisione il Vittoriale?”. Ne convengo, se un posto si chiama GARDONE RIVIERA, un minimo di sospetto avrebbe dovuto venirmi, ma il mio cervello alle sei del mattino è pigro, e anche alle sette, e un pochino anche alle otto….fossero state le nove ci sarei arrivata.
In risposta alla mia domanda Furio alza il volume dell’autoradio…che sia un messaggio subliminale? In autostrada noi siamo sintonizzati sempre su Isoradio, musica improbabile ma informazioni sul traffico sempre aggiornate, però c’è una cosa che non mi spiego: pazienza noi che siamo in autostrada e quindi essere informati sul traffico, per noi, può avere la sua importanza, ma perché alla redazione della radio arrivano messaggi tipo “mi sono appena svegliato, sono ancora a letto e vi ascolto”?
Trovare una possibile spiegazione plausibile ci fa venire fame, è ora di una sosta all’autogrill e meno male che sono passate le nove e il mio cervello si ricorda che oggi c’è il raduno degli alpini a Piacenza, il che spiega anche gli innumerevoli pullman che incrociamo per strada, sarà il caso di rinviare la sosta a dopo Piacenza, al fine di evitare di rimanere imprigionati per sempre in autogrill schiacciati fra cori alpini, caffè corretti grappa, penne, pennine e pennacchi.
Mi piacciono gli alpini, mio padre era un alpino, però non sono ancora riuscita a elaborare il trauma di quando avevo circa otto anni, c’era il raduno degli alpini a Genova, famiglia al completo e cappello con penna nera in primo piano. Diluvio, niente ombrelli, solo un impermeabile giallo fatto dello stesso materiale dei sacchetti della spesa, taglia XXXL: dunque, io a otto anni pesavo forse venti chili, sembravo in accappatoio con quell’affare orrendo sopra al mio vestito preferito in velluto viola con una balza a fiorellini e un fiore fatto con la stessa stoffa della balza applicato sul petto e maniche a sbuffo. Bellissimo. Gira ancora una foto di quel raduno: bimba con adorabile vestito viola con sopra accappatoio di plastica giallo in testa cappello da alpino, sguardo triste perché oltre a litri e litri di pioggia ha preso pure una sberla da suo padre in quanto la bimba ha pestato inavvertitamente un ricordino di un cane che passava di li. Certe cose non si dimenticano.
Finalmente ci fermiamo ad un autogrill “alpini free”, cappuccio e brioche per Magda, un Capri e una Coca per Furio ( i nostri fusi orari alimentari sono decisamente sfalsati). Se siamo riusciti a scampare al pericolo alpini, nulla possiamo per evitare un gruppo di tifosi del Torino in trasferta in divisa total look granata: felpa, polo, sciarpa, cappello e bandiere. Alla toilette gentili signorine della curva ripassano i cori da stadio, e devo convenire che fare pipì accompagnata da un sentito “noi non ti lasceremo maiiiiiiiiiii” ha una sua suggestione.
Nonostante i reiterati tentativi del Tom Tom di farci sbagliare strada, arriviamo a destinazione. Posteggiamo la macchina. Famigliola apriamo la prima busta: cosa c’è scritto? Arrivo previsto ore 10:15. Sono le 10:16. Furio è Furio e non si smentisce mai.
Fine prima parte.

L’amore ai tempi del… Viagra

Parliamo d’amore….quello vero, quello che fa battere forte il cuore; quell’amore che qui, nella romantica Portofino trova la sua cornice ideale: l’amore che misteriosamente sboccia fra neanche-tanto-arzilli vecchietti e deliziose signorine che se va bene, hanno acquisito da pochissimo il diritto di voto, e da ancor meno tempo, la cittadinanza italiana.
Li riconosci da lontano, lei bellissima svetta su tacchi altissimi, con addosso vestiti firmatissimi e gioielli brillantissimi, tutto issimo insomma. Sguardo fiero e attento su chi va e chi viene, potrebbe sempre innamorarsi improvvisamente di uno che ha la barca…pardon…il cuore, più grande.
Lui il più delle volte ha addosso il classico blazer doppiopetto con i bottoni dorati, un po’ ancien régime, ma sempre elegantissimo, fuma il sigaro e al polso ha l’inequivocabile segno della sua ricchezza: un orologio d’oro grosso come un pendolo a muro. La tiene affettuosamente a braccetto, onde evitare che lei si spezzi una delle sue sottilissime caviglie, già, perché poco importa se hai ai piedi delle preziosissime Louboutin o Jimmy Choo, la Piazzetta di Portofino è fatta tutta di insidiosi ciottolini, che con i tacchi alti non vanno proprio d’accordo, e tutte, ma proprio tutte, assumono l’andatura di un fenicottero ubriaco, e l’unica via di possibile salvezza è aggrapparsi al braccio del proprio cavaliere.
E qui bisogna aprire una parentesi per distinguere le parvenues dalle habituèes: le prime sono quelle che ignare di cosa le aspetta si arrampicano su tacchi altissimi e fanno giocare alla roulette russa i loro malleoli ad ogni passo; le seconde, sono quelle eleganti signore e signorine che si godono il week end al mare con ai piedi semplicissime, comodissime e piattissime ballerine Porselli che sarebbero da danza, ma fa chic indossarle come scarpe comuni, quindi costano una follia durano un giorno, ma garantiscono una perfetta aderenza al suolo, in barba ai ciottoli. Normalmente poi, le seconde guardano le prime con una sorta di sguardo di compatimento, come a dire “tesoro se ti giocherai bene le tue carte potrai anche tu un giorno scendere dagli escort-tacchi”.
Ma torniamo ai nostri piccioncini.
Li vedi scendere in tarda mattinata, le più abili vantano già un prezioso bottino raggranellato nelle boutiques di Via Roma, strada che dal posteggio conduce in Piazzetta, una specie di percorso obbligato, insomma: Hermès, Gucci, Pucci e Dior. Lei sarà un po’ annoiata dietro gli enormi occhiali da sole mentre lui parla di finanza e politica oppure saluta le vecchie glorie del posto “il Puny”, “il Tigre”, “l’Ugo” e “il Pinuccio”… Tutti amici e tutti con l’articolo IL davanti. Prenderanno un aperitivo dal Mariuccia, lei un analcolico alla frutta (deve rimanere lucida) lui uno “champagnino” accompagnato da languidi sguardi da gatta sapientemente dispensati ad arte dalla giovane innamorata.
Il rituale del pranzo è pressoché sempre lo stesso: tavolo riservato, una foglia di lattuga (piccola e scondita, mi raccomando) per lei, mentre lui fa filotto: antipasto, primo, secondo, dolce, caffè, ammazzacaffè (deve tenersi in forze ); lui proverà più volte a fare assaggiare qualcosa alla signorina, ma in risposta otterrà solo degli sguardi di sufficienza e un muso lungo, a meno che….
A meno che lei non abbia rosicchiato la sua lattuga accompagnandola con ampie sorsate di vino, nel qual caso la temperatura salirà e pure la pressione del nostro Romeo perché lei comincerà a stuzzicarlo in tutti i modi il tutto sotto sguardi carichi di invidia (uomini)o di disappunto (donne). E se è vero che tutto ha un prezzo, il pomeriggio potrebbe essere molto caro per il nostro incanutito innamorato.
Il tempo necessario per un rapido giro nelle boutiques della calata, ce ne sono di molto interessanti, e poi via, verso la camera del l’hotel/la barca/ la villa dove il nostro Casanova riscuoterà il suo credito mettendo a rischio per l’ennesima volta le sue coronarie un po’ acciaccate e macchiate di blu.
Finché un giorno la cameriera telefonerà ai di lui figli per dare la notizia ferale… E qui l’universo degli amori impossibili si spacca in due, da una parte le lungimiranti ossia le fanciulle che con mezzi più o meno leciti si sono garantite menzione sul testamento, e dall’altra le sprovvedute ovvero coloro che non sono state abbastanza rapide ad accaparrarsi la loro fetta.
E dopo qualche anno le ritroveremo tutte a passeggio nella solita Piazzetta, le lungimiranti saranno passate al rango di ereditiere, indosseranno scarpe basse, i soliti abiti firmati e i nuovi gioielli di famiglia, le altre saranno aggrappate al braccio di un nuovo fidanzato in blazer doppiopetto blu, con ai piedi i soliti scomodissimi tacchi altissimi.

Un sorriso salverà il mondo

L’avete notato anche voi? Stiamo diventando un Paese di pazzi.
Sempre di corsa, sempre arrabbiati, sempre con il ringhio pronto…fossimo animali avremmo il pelo sempre dritto sulla schiena, pronti all’attacco.
Soprattutto per strada, indipendentemente dal mezzo che stai guidando, non puoi avere la minima esitazione che subito partono i clacson, i gestacci e le urla. E santo cielo.
Ho fatto la stessa riflessione domenica scorsa tornando a casa dal lavoro. Ero in autostrada e ad un certo punto mi sono accorta che stavo cominciando ad andare un po’ troppo veloce: ma perché? Dove volevo arrivare con cinque minuti di anticipo?a casa, dove c’erano Furio e Tabata che mi aspettavano. Pensando a loro ho rallentato, meglio arrivare un po’ dopo ma arrivare sani e salvi. Me li immaginavo con le loro faccette belle, ho sentito l’armonia e la pace di casa, e come per incanto, correre in autostrada mi è sembrata una cosa stupida. Ho alzato il volume dell’autoradio, ho cercato una canzone cantereccia e mi son fatta una bella cantata fino a casa, velocità massima 110 chilometri, mentre sulla mia sinistra era tutto uno sfrecciare, fare i fari per chiedere strada e attaccarsi alla macchina davanti che se per disgrazia chi guida starnutisce, l’incidente domenicale è servito.
Idem in scooter. Stamattina un tipo pur di superarmi si stava per portare via la mia spalla sinistra e pur di tagliare per primo chissà quale traguardo immaginario, ha fatto dei numeri da brivido su una strada, la Pagana per chi conosce i nostri posti, già nota ai militi delle ambulanze del 118.
Ma perché tutta questa fretta? È così fondamentale arrivare tre minuti prima mettendo a repentaglio la tua incolumità e quella di chi ti sta intorno? Siamo forse nella Savana, dove al mattino quando ti svegli, non importa se sei leone o gazzella, l’importante è che tu corra?
Sapete che c’è? C’è che stiamo diventando peggio dei leoni e delle gazzelle e di tutti gli animali in genere.
Intorno a me io vedo prepotenze di ogni tipo e spesso contro chi è più debole. Un tale l’altro giorno a momenti fa venire un infarto ad una persona anziana con tanto di bastone che attraversava la strada sulle strisce pedonali: rea del fatto di essere un po’ lenta, le ha scaricato addosso una serie di strombazzate di clacson, si è presa uno spavento poveretta. E lui, il cretino, che si guardava intorno a cercare sguardi di approvazione: minchia, guarda come sono figo. Sei il re degli sfigati se proprio vuoi saperlo, idiota!
Altro giro, altra corsa, un classico: le poste. Una signora anziana è stata presa a male parole dall’impiegata perché la signora era un po’ sorda e non capiva quello che doveva fare. Però li non ci ho visto più e sono intervenuta a difesa della signora che nel frattempo era anche andata in confusione. All’impiegata maleducata ho chiesto perché non facesse la prepotente anche con me, lei si è giustificata dicendo che è un lavoro frustrante (!) e che di clienti come la signora gliene capitano a decine e alla lunga snervano. Prova andare a spaccare pietre e poi ne riparliamo, e augurati di arrivarci all’età della signora, miracolata dello Stato che non sei altro.
GRRRRRRRRRRR!
È questo che manca: il provare a mettersi nei panni del prossimo, provare a guardare la stessa situazione ma dalla sua prospettiva. Non siamo più capaci a essere gentili. Stiamo diventando poveri, ma non per colpa della crisi economica, poveri di spirito e avari di sorrisi. Brutti.
Pensare che è così bella la gentilezza, con uno sforzo minimo potete cambiare la giornata a qualcuno, e cosa ancor più bella, sappiate che la gentilezza è contagiosa. Se voi siete stati gentili con qualcuno, lui avrà voglia di esserlo con qualcun altro e via di seguito, il circolo virtuoso è stato innescato: DA VOI! Non è fantastico? Non vi fa sentire bene? Non vi fa venire voglia di sorridere? Ed è magnifico far sorridere la gente, io mi sono resa conto di quanto sia bello, portando a spasso il mio cane Tabata. Io non so di quale misterioso potere sia dotata (forse è solo molto buffa, ma io preferisco credere che abbia di suo un muso che sembra sorridere sempre), sta di fatto che al suo passaggio la gente sorride e la conoscono tutti. Bellissimo.
Ultima cosa: salutate. Anche se non siete sicuri di conoscerla o meno la persona che incrociate, voi salutatela, non le dovete mica allungare 50 euro, caso in cui forse una riflessione val la pena farla: il saluto è gratis, quindi che vi vi frega? Sganciate un bel sorriso e salutate, nella peggiore delle ipotesi verrete ignorati, in questo caso non rimaneteci male, lo sfigato è quello che è così misero da non poter nemmeno rispondere a un saluto, ma in tutti gli altri casi verrete contraccambiati.
Il sorriso e la gentilezza sono universali e non passano mai di moda, stanno bene a tutti e arricchiscono le persone senza però impoverire nessuno in contropartita, quindi, perché non provare?
Io me lo sono imposta come regola tempo fa e ormai è diventata un’abitudine, qualcuno penserà che sono strana, ma la maggioranza pensa, spero, che sono una persona gentile e sorridente e simpatica, in pace con il mondo.
Vi pare poco?
A me no.

Dagli archivi segreti di Magda: correva l’anno 2011…

Tutto comincia con quella strana sensazione di buono, quelle sensazioni che non le sai spiegare ma sai che se le seguirai ti condurranno da qualche parte. Come intraprendere un viaggio bendati, senza conoscere nè strada nè destinazione, ma una parte di te sa, che se ti lascerai guidare dal tuo istinto, che urla e spinge perchè tu lo segua, tutto andrà per il verso giusto.
E poi ci si mette la prudenza, che ti ripete “vai piano, che se cadi poi sono dolori” e la paura, che anche lei vuole dire la sua “e se fosse un clamoroso abbaglio?” e quella subdola dell’insicurezza “che ti credi, perchè questa volta dovrebbe essere diverso?”…un gran vociare e tu ferma lì, combattuta.
Ma quel richiamo è troppo forte, e allora il lampo, l’intuizione: inviti la paura, l’insicurezza e la prudenza intorno a un tavolo da gioco.
Ce la giochiamo.
Dai le carte, chi vince si aggiudicherà il diritto di scelta, tanto sai che prudenza si accontenterà, insicurezza non vuole azzardare e paura trema davanti alle carte. E tu?
Tu, invece, giochi la mano più brillante della tua vita: poche garanzie a disposizione, ma la certezza che nulla può andare storto e così giri le tue carte sul tavolo, guardi fissa negli occhi gli altri giocatori e sorridi, loro intimoriti lasciano. Hai vinto! E mentre ti allontani da quel tavolo senti solo una voce, quella del tuo istinto che ti ripete “corri incontro a quella sensazione, azzarda, corri il rischio che andrà tutto bene”.
E’ passato un anno da quando hai zittito paura, insucurezza e prudenza, sono ancora là, sedute al tavolo con le loro inutili carte in mano e tu sorridi pensando al brivido che hai provato quel giorno, quando hai detto sì a qualcosa a cui non riuscivi a dare un nome, ma dentro di te avevi già tutte le risposte a domande non ancora poste.
E ora puoi solo confermare, è stata la scelta più azzeccata che potessi prendere: un solo sì…mille volte sì.

E ora di anni ne sono passati tre e quei mille sì brillano ancora.