È difficile trovare un attacco adeguato quando devi parlare di New York, la città in cui io, a tutt’oggi, mi trasferirei seduta stante, al volo, senza troppo pensare.
Le hanno dedicato libri, musicals, film di ogni genere, dal più drammatico al più demenziale, da veri e propri capisaldi della storia del cinema, fino a planare ad autentiche stupidate di cui, cinque minuti dopo i titoli di coda, non ricordi nemmeno più il titolo, per non parlare della serie infinita di canzoni, canzoncine e canzonette di cui questa città è l’insindacabile musa ispiratrice.
L’occasione per decidere di passare una settimana di vacanza in questa città quest’anno ce l’ha servita fresca fresca su un piatto d’argento la decisione di Luca di partecipare alla Maratona di New York (tranquilli, di questo ne riparleremo), e allora, pronti, partenza ai posti, via: un bel giro di click su Internet e nel giro di un’ora abbiamo fatto tutto, volo, hotel, ristoranti e per buona misura, pure un concerto jazz. Fantastico.
E allora via, si parte.
Siamo anche riusciti a toglierci lo sfizio di volare con la compagnia aerea Emirates, e di verificare se la qualità promessa è in qualche modo supportata dai fatti e, in effetti, così è stato: poltrone comode, bei film, cibo discreto (che in riferimento ai pasti in aereo, è già tanto) e poi sorpresa delle sorprese: vino, whisky, birra. Tu chiedevi e le hostess sorridenti porgevano. Morale della storia, complice l’aver pasteggiato con un vino bianco bello fresco, sono piombata in un sonno profondo, accorciando il volo di almeno due ore, che male non fa.
E cosi ci ritroviamo a passeggiare lungo la Fifth Avenue alle dieci sera, morti dal sonno, ma con la ferma intenzione di non darla vinta al jet lag che ci vorrebbe già belli immersi nel sonno, anche se io a essere proprio proprio onesti, gliel’avrei data vinta eccome, buttandomi a dormire con ancora addosso la borsa, la giacca e le scarpe. Una stanchezza inenarrabile che il giorno dopo si è trasformata in dramma, quando ho scoperto che il mio inglese dopo un anno di non utilizzo, aveva fatto la ruggine: blocco totale della parola e della comprensione, cervello chiuso a doppia mandata, totalmente incapace di comunicare io, che mi sono sempre pavoneggiata di avere una buona dimestichezza con l’inglese… Disperazione. Fiduciosa attendo gli sviluppi, e che il mio inglese torni serenamente a galla.
Ma non aspettiamo oltre,me immergiamoci nell’atmosfera unica di questa città. L’approccio adottato questa volta, che è la nostra seconda volta, è un po’ diverso dal solito: meno turistico e più calato nella realtà, quindi niente arrampicate fino in cima all’Empire State Building, niente ascensori fantasmagorici per arrivare sulla cima del Rockfeller Center, niente Statua della Libertà e Ellis Island, nessuna foto di rito mentre palpeggio gli attributi del toro di Wall Street, solo una tappa sentiamo assolutamente”necessaria”: Ground Zero. Quattro anni fa era un cantiere a cielo aperto, qualche tempo fa avevamo visto in televisione l’inaugurazione del Memorial, e ora andiamo a verificare con i nostri occhi a che punto stanno veramente le cose. Inutile ribadire un concetto ormai chiaro a tutti: gli americani sono i più bravi di tutti a celebrare, a rendere merito, a tributare onori e glorie a chi in nome della propria nazione, ha immolato la sua esistenza, è tutta la superficie un tempo occupata dalle Torri Gemelle ne è la prova. A svettare sopra le nostre teste c’è la Freedom Tower, il primo grattacielo “parlante”, infatti la sua antenna manda perpetuamente per tutto il giorno il segnale corrispondente alla lettera “N” nell’alfabeto Morse. Ma, a dare il vero pugno nello stomaco sono le due fontane, costruite esattamente in corrispondenza delle fondamenta delle due torri: maestose nella loro totale essenzialità, non c’è nessun elemento decorativo particolare, solo acqua che scorre a ciclo continuo, producendo un suono che ti entra nella testa, e che spezza un silenzio raccolto di tutti coloro che sono in visita, e poi nomi, tanti tantissimi nomi di coloro che hanno perso la vita nell’attentato dell’ 11 settembre, che si rincorrono sulle lastre di pietra che costituiscono le fontane. Qua e là si scorgono dei fiori incastrati nelle lettere di qualche nome, il gesto gentile di un amico o un parente, ma anche, perché no, di un illustre sconosciuto. Esattamente sotto le fontane si trova il museo dedicato all’11 settembre: una ricostruzione molto toccante di tutto ciò che ha rappresentato per New York quel tragico attentato, dalla trave di acciaio deformata dalla fusoliera dell’aereo, al drammatico conto alla rovescia, aggiornato quotidianamente da una signora, che ha scandito il passare del tempo dal giorno dell’attentato al giorno in cui Bin Laden è stato ucciso. Ma non vi tedierò oltre, se volete approfondire www.911memorial.org
Uscendo dal Memorial, ho provato un vero e proprio senso di liberazione, perché immergersi nel dolore di una città intera è qualcosa di veramente tosto, e in ogni area del museo questo dolore viene ribadito e celebrato, fino a diventare angosciante. Abbiamo bisogno di aria e luce, usciamo e ci incamminiamo a piedi, destinazione: vedremo.