Magda e la resilienza.

Se cercate sul web la definizione della parola “resilienza”, ne troverete a decine. Ce n’è una per ogni esigenza o necessità. In psicologia,viene definita resilienza la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Nello sport viene definito resiliente quell’atleta che, semplicemente, si rifiuta di arrendersi, colui che “è in grado di risalire sulla barca rovesciata”.

Vi giuro, e chi mi conosce sa che non mento, che io Luca lo avrei ammazzato quando mi spingeva a correre anche quando le gambe mi bruciavano, il fiato mi moriva in gola, avevo il battito cardiaco di un colibrì,  tutto il mio corpo urlava la sua disperazione, e lui con quella sua dannata (adorabile) “erre” nobile e senza palesare il minimo sforzo, mi diceva che dovevo essere resiliente, avere un atteggiamento zen, “devi essere come i monaci tibetani, che riescono a rimanere impassibili e sereni, anche davanti al nemico che li picchia duro”. Due considerazioni a caldo: a)ti sembro forse un monaco tibetano? b) ringrazia che nella taschina dei pantaloncini da running non ci stia una rivoltella, altrimenti te lo facevo vedere io il monaco…

Sta di fatto che ha avuto ragione lui. Non mi sono arresa, con non poca fatica ho messo in questi tre mesi la corsa al centro della mia vita, e qualcosa è effettivamente cambiato: accetto la fatica, e in quei momenti in cui fiato, gambe, testa e cuore si allineano, quando magari in cuffia entra la mia canzone preferita, inizio a sentire i sensi farsi più vivi: senti le vibrazioni dei tuoi passi, il profumo dell’erba, l’aria sul viso, gli occhi si spingono lontano e i pensieri scivolano via veloci. Un momento sublime in cui ti senti al centro dell’Universo e non vorresti essere in nessun altro posto al mondo. Sei vivo, qui e ora.

Prima erano 5, poi sono aumentati sempre di più, e ora sono 21 km. Prima erano 7 minuti al chilometro, ora sto quasi sempre sotto i 6, prima non riuscivo a correre da sola perché non riuscivo a prendere il ritmo giusto e mi scoppiavo subito,  subivo mentre ora gestisco. Ho imparato che la corsa non ammette scorrettezze: se esci di casa che devi fare 10 chilometri, e poi ne fai solo 5, semplicemente non arrivi a destinazione, sei a metà strada e in un modo o nell’altro a casa devi trovare il modo di tornarci. Se penso a quanto nervoso mi facevo quando al box vedevo gente segnare rep e tempi campati per aria, e io sempre dietro…magari gente che frequentava da molto meno tempo di me. Eccola qui la resilienza: la resilienza ti impone la lealtà, prima verso te stesso e poi verso gli altri, se sono 10, ne devi fare 10. Punto fine e stop. E a costo di farti saltare le unghie nei piedi, o aprirti le mani, o riempirti di lividi, tu su quella barca rovesciata ci devi risalire. E ci risalirai.

La testa comanda, il corpo esegue. Non è mai il corpo ad arrendersi per primo, è la testa quella da tenere a bada, se durante la fatica fai entrare anche un solo pensiero negativo, è come avere firmato la resa. Se invece riesci a sviluppare la resilienza, la mente rimarrà centrata sull’obiettivo, e ci puoi giurare, il corpo ti porterà a destinazione, senza prendere scorciatoie, sia che si tratti di correre una maratona, sia che si tratti di fare 20 rep dell’esercizio che più detesti.

Io non lo credevo, e pensavo che non lo avrei mai detto, ma la sensazione della fatica dopo un allenamento pesante, è una vera e propria droga, è appagamento puro, senza tralasciare il fatto che poi ti puoi strafogare di gelati e aperitivi, senza che la bilancia nemmeno se ne accorga. Sono quelle spalle un po’ più dritte e inorgoglite perché tu sai fare qualcosa che gli altri si sognano, perché uscire di casa sapendo che ci tornerai 21 chilometri dopo, richiede una capacità di concentrazione  che io ho cominciato a realizzare solo adesso (e che spesso ancora mi sfugge),  che non è proprio alla portata di tutti, non tanto per mancanza di capacità, quanto piuttosto per mancanza di voglia.

Tutti siamo in grado di fare grandi cose, bisogna solo imparare a mettere in conto la fatica senza farsene sopraffare: imparare non tanto a sconfiggerla, quanto a camminarle di fianco. Esattamente come  il dolore che purtroppo non si può evitare, mentre  la sofferenza è opzionale, perché dipende da come ti approcci al dolore che stai vivendo: se lo accetti gli toglierai forza, e non ci sarà più sofferenza; ed eccolo qui l’atteggiamento zen dei monaci tibetani da cui siamo partiti: trasformare tutto quello che si sta vivendo in energia positiva, sia che si tratti di correre 10 chilometri con un ginocchio in fiamme, sia che si tratti di cercare di sopravvivere al periodo più difficile della nostra vita.

Sto leggendo un libro “L’arte di correre” di Murakami, scrittore e maratoneta giapponese,  personalità a cui per una serie di motivi vorrei essere degna di somigliare, e sentite un po’ cosa dice lui in merito alla resilienza e alla capacità di non arrendersi alla fatica:  “Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare almeno per un istante, la sensazione autentica di vivere. Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione stessa, vi scorre dentro.” Come dire che non ha importanza quanto tempo ci mettiate nel raggiungere un obiettivo, l’importante è che non vi siate arresi alla fatica, perché è cosi che si migliora e si da un senso alla nostra vita. Se bari questo circolo virtuoso di crescita interiore non si innesca nemmeno. Tu pensi di essere andato lontanissimo rispetto agli altri, ma in realtà, non ti sei nemmeno mosso dai blocchi di partenza. Resta poi il fatto ovvio e legittimo, che ognuno  è libero di gestire la propria vita come ritiene più opportuno; non siamo qui per impartire lezioni di vita a nessuno, e a dirla tutta, non ne abbiamo nemmeno tanta voglia…

Tornerò presto nel mio amato box, dove tutto questa passione ha trovato spunto e slancio, e essendo un po’ più consapevole dei miei mezzi, ci metterò più impegno di prima, e invece di incavolarmi come un puma davanti a quelli che in gergo vengono definiti “zanzarep” (orribile, lo so, mi rendo conto), sorriderò perché il mio faticare onesto mi porta ad una crescita a 360 gradi, mentre i loro numeri strabilianti, resteranno solo e comunque numeri vuoti scritti su una lavagna che la sera, quando il box chiude, verranno cancellati con un colpo di spugna. E non ne resterà traccia.

 

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